1 aprile 2013

Si può giocare a ping pong con la Corea del Nord?

di Ilaria Lezzi, con introduzione di Filippo Barbagli

O si può giocare soltanto a calcio? Speriamo di no.
Proponiamo oggi un'analisi dettagliata ed acuta sulla questione nordcoreana, ed i rapporti tra il regno dei Kim, la Cina e gli Stati Uniti. Parlare della Corea del Nord oggi non significa infatti affrontare solamente, come sottolinea l'autrice, l'ultima vestigia o eredità pesante della Guerra Fredda. 


Bensì entrano in gioco fattori strategici decisivi come l'armamento nucleare di "stati canaglia" -come avevamo già discusso nel post precedente- e l'avvento di un nuovo ordine di forze in quella parte del mondo. E' sul piano geopolitico che invero si gioca tutta la partita: l'ascesa della Cina come prima potenza mondiale con le conseguenze sui suoi "stati satellite" (o pseudo tali) dell'area, il declino del Giappone, che appunto nonostante Fukushima non rinuncia all'energia nucleare, la questione delle basi militari statunitensi e tutte le dispute sui vari isolotti del mar cinese, da quelli coreani alle isole Paracelso. In questo contesto s'inserisce la nuova politica estera USA inaugurata da Obama-Clinton nel 2009 che ha come pivot basilare l'Asia orientale ed è cominiciata con l'apertura (attrazione?) verso la Birmania. La partita della Corea rischia quindi da una parte di fornire, proprio come sessant'anni fa, il caso emblematico di un nuovo scontro ideologico tra due superpotenze, ma dall'altra è il nodo più caldo della sfida del secolo, cioè l'ascesa della Cina. La Corea è fondamentale anche per le rotte verso l'Artico, il nuovo scenario di battaglia per le risorse dei prossimi decenni. Ecco perché in una città grigia e buia come Pyongyang si giocano i destini del mondo dei prossimi anni.


Gli accordi di Pechino del 1972 con i quali la Cina - sovversiva agli occhi sovietici ma in realtà fautrice di un comunismo proprio - viene formalmente e sostanzialmente traslata nel blocco occidentale in un sistema triangolare a poli giapponese e statunitense, trovano un retroscena quasi romanzesco nella famigerata “diplomazia del ping pong”. Giusto per alleggerire e sforzarsi di colorare la plombe diplomatica kissingeriana. Alla fine di un torneo di ping pong che vedeva impegnate sul campo (guarda caso) squadra cinese e statunitense, Glenn Cowan, dimenticato sbadatamente dalla sua squadra, viene accompagnato educatamente dalla delegazione cinese e, durante il tragitto, iniziano a colloquiare. La simpatia fu talmente forte che la delegazione americana venne invitata in suolo cinese, per un nuovo match a ping pong, è chiaro. Fatto sta che Stati Uniti e Cina, sorpassando i formali accordi di Pechino, in questi 41 anni non si sono limitati a partite di ping pong. Visti i risultati sorprendenti, si potrebbe pensare ad una partita con la Corea del Nord?
Gli sportivi non lo escluderebbero ma la storia ha un corso diverso. La Corea del Nord non è la Cina, così come il 1972 non è il 2013.

La divisione della Corea rappresenta l'esempio più remoto e, per di più, ancora tangibile della "politica delle sfere d'influenza" , marchio a fuoco degli albori della guerra fredda. Lampantemente essa è anche il primo esempio dell'uso spregiudicato dell'imperialismo giustificato da dettami ideologico-difensivi da parte delle grandi potenze (gli Stati Uniti e l'annaspata Unione Sovietica, poi la Cina) delle Nazioni Unite, chiamate a legittimare la loro presenza nella penisola. La spaccatura del 1945 tra un Nord filo-sovietico e un Sud filo-americano è stata la più severa tra le separazioni di Stati della storia contemporanea.
Potremmo dire che il suo destino poteva definirsi predeterminato: se nel 1943, troncandola dal Giappone, "avrebbe guadagnato indipendenza a tempo dovuto", in una torrida notte di agosto del 1945 il suo futuro venne marchiato da una linea di matita su di una cartina del National Geographic. Il più celebre trentottesimo parallelo, appunto. Potremmo dire che la Corea nasce divisa? Sicuramente viene fatta nascere in chiave anti-giapponese o almeno post-giapponese. C'è chi suole definirla Germania postbellica del Pacifico, da un lato il nord appoggiato dalla Cina e dall'altro il sud dagli USA, fatto sta che mentre in europa ci è voluto il crollo del comunismo (sovietico) per compattare la nazione tedesca, qui dovrebbe esser il bastione cinese a dover crollare. Siam sicuri, però, che venuto meno il supporto cinese (ideologico e non) i due lembi della penisola tendano naturalmente a ricucirsi? Oltre ad essere nata già come entità divisa, la divisione della penisola è ormai irreversibile, e intendo le abissali differenze politiche ed economiche, riflesso di ideologie universali che nella somma tendono ad annullarsi, a maggior ragione se alle spalle hanno l'abbraccio di due grandi potenze. Il Sud ospita una popolazione cristiana tra le più ferventi d’Asia, mentre il Nord ha sviluppato un culto comunista della personalità che è stato – e rimane – più fanatico perfino di quelli di Mao o Stalin; alle soglie del XXI secolo il Nord è stremato dalle carestie e dal declino economico mentre il Sud è la dodicesima potenza economica del mondo. Nè cinesi e statunitensi, inoltre, hanno interesse a inondare il lembo avversario della penisola, rendendola uniforme sotto la rispettiva fede: sono consci della incredibile destabilizzazione che si verificherebbe.

Da un punto di vista geostrategico un ipotetico crollo cinese determinerebbe un vuoto nel gioco di contrappeso con gli Stati Uniti; si è nel campo delle pure congetture, è da intendersi, dato che non pare prospettarsi, nel prossimo futuro, un tale scenario. Ma un passo indietro cinese potrebbe profilarsi anche con un semplice mancato appoggio -o addirittura condanna- alle mosse nordocoreane, cosa che, seppur con sorpresa, è avvenuta.
Quello che ha più sconcertato lo scenario internazionale, in seno agli ultimi sconvolgimenti nel sud-est asiatico, è stata quell'apparente rottura del cordone tra Pechino e Pyongyang.
Fuori dubbio la decisione coreana di effettuare manovre nucleari “in maniera perfetta e sicura” si è architettata profittando del tumulto transitivo nel Pacifico, (cambio di leadership politica in Giappone, Cina e Corea del Sud, oltre che i non trascurabili festeggiamenti per il capodanno lunare) cercando magari di poter agire senza avere il fiato sul collo. Ma la risposta cinese si è avuta e come, ed è stata oltre che una ferrea condanna, una redazione congiunta agli statunitensi di una bozza di risoluzione punitiva, adottata poi all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite lo scorso 7 marzo.
Solitamente queste prove di forza a carattere militare vengono interpretate come una dimostrazione di potere da parte del leader in carica - prima Kim Jong-il, ora Kim Jong-un - e come un modo di ricompattare le Forze armate e una popolazione le cui condizioni di vita rimangono proibitive dietro alla bandiera del nazionalismo. Stante l'isolamento quasi totale del regime nordcoreano, l'unico partner commerciale e politico di rilievo è la Repubblica Popolare Cinese. Ma gli inviti - non privi di toni ultimativi - alla moderazione di Pechino non sono stati ascoltati, e il suo sostegno alla risoluzione Onu di condanna per il test missilistico è stato clamorosamente ripagato con un test nucleare. Pyongyang parla di “diritto di difesa” nongià da Seoul ma da Washington e di star agendo “per proteggere la sicurezza nazionale e la sovranità dalla feroce ostilità degli Stati Uniti”. Kim Jong-un sfida il mondo a partire dall'alleato cinese: è un chiaro segnale che la Corea del Nord non vuole essere considerata alla mercè della Cina.
Se con Xi Jinping si può pensare a qualche moderata sterzata, soprattutto per esigenze di visibilità internazionale oltre che strategicamente necessarie per la Cina -continuerà la sua politica assertiva e aggressiva nei confronti del Giappone per le note rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale riguardanti le isole Daoyu e Senkaku e ovviamente penserà a irrobustire ancor di più il braccio economico con Tokyo e Washington- la linea di politica estera di Pyongyang non pare essere cambiata da quando al potere è salito Kim Jong-un : chiodo fisso delle relazioni internazionali del Paese è la strategia della minaccia, declinata in due forme: la minaccia nucleare-missilistica e la minaccia umanitaria.
La minaccia nucleare, risalente alla fine degli anni Ottanta è basata sulla messa in opera di un programma missilistico-nucleare diretta contro Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti. Da Kim Jong-il in avanti, detenere l'arma nucleare, e soprattutto poter portare un attacco missilistico nucleare, significa per il regime entrare a far parte di un club esclusivo che gode ancora oggi di maggior rispetto e considerazione tra la Comunità degli Stati. La minaccia umanitaria riguarda invece l'eventualità che un collasso interno del regime spinga flussi ingentissimi di persone a emigrare verso i confini cinesi, sudcoreani e russi. Proprio questa seconda minaccia tiene in pugno Pechino. Nonostante il calibro economico che Pechino ha in Corea del Nord (primo partner commerciale del regime con un interscambio stimato in oltre 5 miliardi di dollari ed una dipendenza nordcoreana superiore al 70%), il rischio di una implosione interna del regime, e la conseguente destabilizzazione dei confini rendono la Cina propensa ad una difesa dello status quo.

Ma possibile che del trascorso della Corea bisogna parlare solo in termini internazionali? Non è, da intendersi, una faccenda peninsolare o, al massimo, subcontinentale? Sessant'anni di confronto militare hanno reso ogni ipotesi di conflitto armato in Corea un gioco a somma zero, senza vinti né vincitori. Del resto, la causa nordcoreana andrebbe scissa tra un miraggio di dominio sulla parte meridionale, uniformando la penisola, ma passandoci attraverso una cacciata degli Stati Uniti dalla “loro” penisola. «Tutti i coreani devono prendere parte alla grande e giusta guerra per la riunificazione della patria e cacciare gli Stati Uniti dal suolo coreano», cita un comunicato stampa di Pyongyang dello scorso 18 marzo. In linea di ciò la stracciata dell'armistizio del 1953 è schiarita in linea con questa congettura: l'armistizio infatti poneva un mero strato di tregua, tra due Coree indipendenti. Pertanto, dichiararlo nullo equivale a non dover riconoscere più la dualità delle due Coree, e ovviamente a riprender le armi in pugno. Ma in che direzione va la guerra? L'una contro l'altra o, patriotticamente, assieme? Ora che la Cina pare togliere il suo bastone d'appoggio, dovrebbero far lo stesso gli Stati Uniti, in modo che Seoul non si trovi accerchiata da due fuochi? Ma Seoul intende percorrere il tragitto teorizzato da Kim Jong-un (mi permetto di nominar lui stesso poiché, in Corea del Nord, si sa, la famiglia è il regime)?
Pare difficile per gli Stati Uniti pensare di schiodarsi dalla penisola (e non solo per la nostalgia del trascorso) e dormire sonni tranquilli : «I satelliti e i missili a lunga gittata che noi continueremo a lanciare e i test nucleari di alto livello che faremo sono rivolti al nostro nemico giurato, gli Stati Uniti» è la ricorrente affermazione della Commissione di difesa nazionale nordcoreana. Non c’è da meravigliarsi di questa scelta, è un copione già scritto che è stato più volte reiterato dall’ormai deceduto (se i Kim muoiono davvero) leader Kim Jong-il, nel 2006 e poi nel 2009.
I muscoli di Washington nell'esercitare da sola il controllo egemonico mondiale stanno cedendo; Pechino invece capisce che una politica di isolamento non può certo tutelare i propri interessi.
Nell’estate del 2002, gli Stati Uniti giunsero alla conclusione che la Corea del Nord stava conducendo un programma segreto di riarmo nucleare in violazione degli obblighi internazionali, tensioni che si aggravarono quando all’inizio del 2003 la Corea del Nord fu il primo Paese a uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare. Nonostante un incorniciato incontro tra il presidente sudcoreano Kim Dae-jung e il leader nordcoreano Kim Jong-il, e della visita a Pyongyang del Segretario di Stato americano Madeleine Albright, gli Stati Uniti, senza agire troppo sottobanco, hanno continuato negli anni a infoltire le truppe di schieramento sulla linea di trincea della penisola. Avevano capito -e ora più che mai- che i Kim non facevano per scherzo. Se in guerra fredda Pyongyang rappresentava la roccaforte del comunismo, negli anni 2000 assume la conformazione dei mali da combattere, comparendo come membro ad honorem dell'”Asse del Male” accanto a Iraq e Iran, nel discorso della Casa Bianca del 2002 sullo stato dell’Unione. Alcuni azzardano che quella nomina permetteva a uno Stato canaglia di serie B di ottenne il privilegio di essere iscritto nell’agenda della presidenza degli Stati Uniti. Non sono seguiti ringraziamenti. C'è chi, di posizione nordcoreana indubbiamente più vantaggiosa, ricorda l'episodio in cui stupì il mondo battendo la nazionale italiana di calcio ed entrò nei quarti di finale dei mondiali del 1966. Gli abitanti di Middlesborough, la città inglese che ospitò l’incontro, divennero subito tifosi della Corea del Nord, la cui tattica di gioco consisteva nel correre all’impazzata per tutto l’incontro; uno stile che in seguito fu ribattezzato “calcio totale”.
In politichese internazionale si chiama “massive retaliation” ed è quello che la comunità internazionale, oggi, spera che non avvenga. Pensare che lo stesso taglio della linea rossa che c'era stato già nel 2010 non abbia portato poi ad ulteriori manovre d'azzardo, vale solo per rincuorarsi mettendosi uno scudo sugli occhi. Non è lavoro da palla di vetro, ma si tratta di leggere tra le righe dell' incitato spot nordcoreano: nuclear pre-emptive war. Può esistere una guerra difensiva quando ci si destreggia con armi nucleari?