21 marzo 2013

La vicenda dei due marò tra miopia diplomatica, populismo e scandali militari

di Filippo Barbagli

Domani, il 22 marzo 2013, scade il permesso speciale concesso dalla corte del Kerala ai due fucilieri italiani della brigata San Marco, accusati di aver ucciso due pescatori indiani lo scorso 15 febbraio 2012. ''I nostri ragazzi'' -così l'appellativo affibbiato da politici e giornalisti populisti- erano già potuti tornare in patria per le vacanze natalizie, ed il permesso era stato concesso una seconda volta per votare alle elezioni di fine febbraio. Allora l'ambasciatore italiano, Mancini, s'impegnò solennemente sul ritorno dei due marò in India. L'11 marzo, il ministro degli esteri Terzi ha fatto sapere (ribadendolo poi via Twitter) che i due militari resteranno in Italia per essere qui giudicati. Si è aperta quindi una crisi politica, oltre a quella diplomatica già in atto da un anno, che rischia di assumere toni più gravi: se entro domani i marò non torneranno in India, l'Italia avrà ufficialmente violato degli impegni internazionali.



Una vicenda complicata
Al contrario di altri, l'aver sostenuto un esame di diritto internazionale non fa di me un esperto di diritto del mare, quindi non m'interessa dilungarmi sulla presunta innocenza o colpevolezza dei due soldati italiani, quello è compito dell'autorità che li giudicherà in modo definitivo. In più ammetto di non aver seguito sempre con interesse l'intera vicenda, però adesso mi sento di fare qualche considerazione. In primis guardiamo ai fatti: i due marò italiani hanno ucciso due pescatori indiani nell'ambito di un'operazione internazionale contro la pirateria. Questo è il punto di partenza chiaro.
Per un anno abbiamo assistito ad un braccio di ferro diplomatico tra una media potenza in declino ed una grande potenza in ascesa. Probabilmente, per ragioni di status a cui entrambi i paesi non vogliono rinunciare, la faccenda si sarebbe conclusa con una sentenza della corte indiana che avrebbe comunque permesso ai due militari di scontare la pena in Italia. Ma adesso la situazione è cambiata. Ed il presunto coup de main della Farnesina ha complicato drammaticamente tutto.

Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Impedire infatti alla corte del Kerala di esprimersi sull'accaduto è una colpa imperdonabile. In primo luogo perché non si sono rispettati gli impegni internazionali. Pacta servanda sunt, dicevano i nostri tanto celebrati antenati. Lo abbiamo forse dimenticato? In secondo perché si legittima l'idea, apertamente razzista, che un tribunale indiano sia meno “giusto” ed efficiente di uno italiano. Infine, perché se i “due ragazzi” fossero stati veramente innocenti, non avrebbero avuto problemi a rimanere nel paese degli accusatori. Insomma, della serie: “sì, non sono colpevole....ma intanto scappo”. Terzi ha agito in maniera gretta e sconsiderata: tale azione, tra l'altro, avrebbe potuto compierla solo un ministro nel pieno delle sue funzioni, non quelle di un governo da mesi dimissionario e funzionante solo per gli affari correnti. In questo modo lascia in eredità una crisi difficile al futuro governo, se mai uno forte si formerà in questi giorni, considerata anche la situazione politica interna al nostro paese. E' stato quindi un gesto totalmente sconsiderato e populista. Potrei anche dire che forse è stato influenzato anche dall'ondata populista che ha travolto l'Italia nelle ultime settimane, e quindi dalla volontà del governo di cercare di accreditarsi presso i cittadini per uscire in bellezza, e non più detestati di un Berlusconi fischiato nel novembre del 2011. Ma in effetti, se consideriamo la tenuta di Terzi come ministro degli esteri, non è stato tanto meglio di un Frattini. Una macchietta, nonostante l'essere un diplomatico di alto livello. Peccato.

Monti: credibilità internazionale?
Quindi, ancora una volta, l'Italia non ha rispettato i patti presi a livello internazionale. Evidentemente è un “vizietto” della nostra classe politica e diplomatica sin dai tempi della Triplice Alleanza. Aggiungerei anche un po' patetico, visto che tale impostazione non ha neanche mai rispecchiato azioni proficue di Realpolitik nel corso della storia. Nel nostro caso poi, tale gesto si colora di una patina quasi da commedia pirandelliana: un governo che per un anno e mezzo ha fatto della credibilità internazionale la sua legittimazione democratica, il suo modus vivendi ed operandi, permette al suo rappresentante sulla scena mondiale di violare apertamente gli accordi presi con un grande paese. Fosse stato almeno il governo delle Maldive, avremmo avuto qualche possibilità almeno (con tutto il rispetto dei signori governati a Malè, ovviamente)! Invece no, ci troviamo a lottare diplomaticamente con la più grande democrazia del mondo. Legittimando la presuntuosa convinzione che sia un paese più corrotto del nostro, con un sistema giudiziario ancora più caotico. Consultiamo gli indici internazionali di trasparenza e corruzione, e ricordiamoci anche comunque l'India è una democrazia funzionante, magari lentamente, ma perché ha più di un miliardo di abitanti.

L'assenza di una morale kantina
Terzi e Monti dunque come espressione di un paese del Terzo Mondo, poco affidabile ancora una volta. Ma noi ci siamo dimenticati quando, giustamente, c'indignammo che i colpevoli statunitensi non siano mai stati puniti per la tragedia del Cermis o per la vicenda Sgrena-Calipari? Perché anche al popolo indiano non può essere riconosciuto tale atteggiamento? Lungi da ma da dire che il governo di New Delhi non abbia colpe nello svilupparsi della crisi: la retorica esasperatamente iper-nazionalista, l'assenza di volontà di negoziazione nei primi mesi, il mancato coordinamento con il governo del Kerala, sono esempi validi a supportare tale affermazione. Tuttavia non dobbiamo dimenticare quali sono le poste in gioco: da una parte il destino di due concittadini italiani, colpevoli od innocenti, dall'altra la dimostrazione che nel mondo i rapporti di forza sono cambiati.

I rapporti italo-indiani degli ultimi anni
Invero, tutta la crisi non può essere considerata a parte, e va contestualizzata in una situazione già assai particolare. Per tre motivi. In primis, i rapporti italo-indiani non hanno mai brillato per profondità e coinvolgimento: solo negli ultimi anni c'è stata una sorta di “riscoperta” dell'India, per usare parole degli analisti dello IAI, ma essa non si è accompagnata da risvolti concreti di collaborazioni, come invece è successo nel caso cinese. Tra le poche joint ventures degne di nota infatti c'è stata quella promossa dall'ex sottosegretario alla difesa Crosetto che nel 2009 avviò un progetto di collaborazione tra Finmeccanica ed il colosso Tata per elicotteri di guerra. Da lì la famosa commissione da 750 milioni di dollari sui veivoli AugustaWestland (azienda inglese di Finmeccanica), che il governo indiano ha cancellato dopo un'inchiesta su presunte tangenti a New Delhi e l'arresto del presidente -quota Carroccio- Orsi, lo scorso 12 febbraio. Il gabinetto del premier Singh infatti non voleva commettere lo stesso errore del passato, quando uno scandalo di tangenti, armi e faccendieri italiani coinvolse il governo di Rajiv Gandhi, e qui è servito il terzo motivo.

L'imperatrice dell'India de noattri?
Singh e Gandhi, oltre ad appartenere allo stesso partito, quello dominante dell'India, il Congresso Nazionale Indiano, sono legati da un'altra figura, assai controversa nel paese. Sto parlando di Sonia Gandhi, al secolo Edvige Antonia Maino, piemontese-cenerentola che da in ristorante greco di Cambrige incontrò il rampollo della famiglia più potente del subcontinente, lo sposò e ne raccolse l'eredità politica dopo il suo brutale assassinio, nel 1991, per diventare infine la regina del paese, una delle donne politiche più potenti del mondo, secondo Forbes. Nel 2004 l'INC vinse le elezioni, ma la candidata Sonia rinunciò alla carica di primo ministro proprio per le polemiche sulle sue origini italiane, cedendo l'incarico al grigio economista Singh. Tuttavia la Gandhi rimane il politico più conosciuto e potente dell'India, il capo della dinastia Gandhi-Nehru, oltre che ovviamente dell'INC. Spesso criticata per la sua scarsa pronuncia dell'inglese (come se gli indiani fossero madrelingua), vive, veste e parla come un'indiana. Eppure non è mai stata del tutto accettata, ed i suoi oppositori politici hanno avuto sempre terreno fertile per criticare la straniera, e di riflesso, il suo paese d'origine. Non voglio entrare nel merito politico della Gandhi, però porto l'esempio di come la sua questione delle origini ebbe un riscontro pesante nel caso dello scandalo di cui accennavo prima.



Lo scandalo Bofors
Negli anni '80 infatti l'India fu scossa dallo scandalo Bofors (nome dato da un'azienda svedese di armamenti) che coinvolgeva il governo Gandhi accusato di aver ricevuto tangenti per l'acquisto di cannoni Haubits FH77. La vicenda portò alla sconfitta dell'INC alle elezioni del 1989. Uomo centrare dello scandalo era l'italiano Ottavio Quattrocchi, intimo del premier tramite la di costui moglie Sonia. Quattrocchi lavorava per Snamprogetti, una sussidiaria dell'ENI che negli anni '80 fece affari d'oro in India, dove oggi lui è imprigionato dopo una fuga in Argentina.
Oggi come allora quindi la vicenda dei marò è stata strumentalizzata politicamente dall'opposizione, soprattutto le parti più oltranziste del Bharatiya Janata Party (il principale partito d'opposizione), per attaccare il governo e la leadership della Gandhi, il cui figlio Rahul sta inoltre imponendosi come astro nascente della politica indiana.

La Gandhi ha ovviamente dichiarato due giorni fa che l'Italia deve rispettare i patti, mentre l'UE, tramite l'altro ministro-macchietta Ashton ha dato sostegno al nostro paese nella difesa dell'ambasciatore Mancini trattenuto (in ostaggio praticamente) in India.
E' ovvio quindi che la crisi scaturita dall'incidente del febbraio del 2012 sarebbe stata più circoscritta se, oltre all'atteggiamento miope del governo italiano, anche quello indiano non avesse cavalcato l'onda (populista) anti-italiana latente in una parte della società indiana.