4 luglio 2013

L'Egitto del golpe (apologia delle rivoluzioni perdute - parte III)

(Associated Press)
Ilaria Lezzi e Filippo Barbagli


Quanto pesano le esportazioni ideologiche e quanto pesano le associazioni tra contesti differenti
Partiamo dall'incipit: da come gli occidentali vedono piazza Tahrir. Da un punto di vista alla occidentale, forse prossimi all' anniversario della Presa della Bastiglia. Non ci posson far nulla: quando vedono gente in piazza l'associano a "Democrazia & Libertà": concetti nobilissimi, che la storia occidentale si è guadagnata, che mondi a noi vicini latitanti nel tugurio più nero apprezzano e aspirano, ma con accezioni diverse.


Che si sia scelta una via "islamica" di autogovernarsi e che questa sia fallita per incompetenza e nepotismo, fatto sta che ieri il potere è stato recuperato dal passato. Il male minore forse? Andrei molto cauta nel parlare di "governo democratico" e "rivoluzione di piazza" quindi, sia perché ad analisi oculata non è quello che si è manifestato in Egitto e soprattutto perché si incorre in un abuso di concetti in contesti che hanno un loro trascorso storico e non per forza assimilabile al nostro modo di interpretare la politica ed il buon governo. Ho lanciato un toto- post su chi per primo avesse tirato fuori un parallelismo con la democrazia italiana. Niente di più ironico e degno solo di battute da dopo-cena. Non mi pare il caso di far una lectio magistralis sulle pecche della nostra società politica quanto porre l'accento sull'oculatezza di guardare ai fatti sociali che, non mi stanco di ripeterlo, hanno differenti sentieri. Sforziamoci di conoscere la storia, le caratteristiche più intime di un contesto, il perché del suo grido e non ricadiamo sempre, retoricamente, con lamentosi paragoni di una società comoda che vive dietro uno schermo e che addita i suoi affini di non fare niente per cambiare. Non sforziamoci ad esportare i -nobilissimi- concetti che abbiamo avuto il sacrificio di portare a compimento e vivere. Parlo della democrazia, della libertà nelle sue forme e dei diritti nel senso più lato che ci appartengono e che sta a noi gestirli e non accontentarci mai di farli crescere. Gli stessi concetti che possono avere nomi e forme diverse ma che sono comunque riconosciuti "nobili ed adatti" dalle società se sono esse ad invocarli e a lottare per essi. Non giudichiamole, non facciamo i maestrini in casa loro e in casa nostra, a danno di tutti.
Ad maiora!


Prendo spunto dalla riflessione lanciata dalla mia collega per aggiungere un'ulteriore provocazione. Due anni fa, in occasione della Primavera Araba, parlai di “rivoluzioni perdute”. La mia non si trattava solo di una denominazione nostalgica, era volutamente un disilluso riferimento. E' vero, noi “occidentali” (passatemi la grossolanità), sin dal momento fondativo della nostra storia contemporanea, la Rivoluzione Francese, tendiamo a considerare le rivoluzioni sotto un'ottica romantica ed idealizzata. A vederle come momenti di svolta, di promesse di un futuro migliore ora realizzate, di addio ad un passato triste e desolato. Quasi a compensare l'uccisione freudiana della religione come via di salvezza, sostituita dall'azione terrena: le rivoluzioni sono la promessa di una volontà di riscatto, della consapevolezza del proprio peso nella Storia.
Oggi più che mai, nel mondo “post-moderno”, della fine di quello basato proprio sulle ideologie e nato con la presa della Bastiglia, ci sentiamo quasi affezionati a questi popoli che ancora sembrano avere la forza di riscattarsi. Noi, figli di un occidente opulento che non ha neanche più gli strumenti di concepire un mondo, ed un modo, diverso. Noi, la generazione del dopo '68, per cui il futuro non sono quelle magnifiche sorti e progressive, ma un grigio dubbioso. I primi nella Storia a credere che forse non vivranno meglio della generazione precedente.

Ma ci sbagliamo di grosso. Sono state poche le “rivoluzioni” che davvero hanno cambiato in “meglio” il destino di un popolo, di una o più nazioni. Per il semplice fatto che già in questa frase ho occasionalmente scelto una precisa interpretazione storiografica ed un giudizio di valore.
A mio parare è alquanto fuorviante paragonare i movimenti di protesta delle Primavere Arabe, e quelli da loro discendenti, con quelli degli Indignados e del movimento (o global label?) Occupy. Certamente si tratta di movimenti sociali che presentano caratteristiche comuni (assenza di un leader, mobilitazione online, uso dei social networks etc), ma hanno alle spalle storie diverse. Occupy e gli Indignados erano sorti sulla scia di un rifiuto di un modello socio economico atrofizzato, erano cool e tendenzialmente di sinistra, alimentati dai giovani senza futuro dei paesi europei e Stati Uniti. Le rivolte arabe sono altro, sono la fine di un lungo processo di modernizzazione intesa come presa di coscienza dei propri diritti civili, in regimi veramente dittatoriali, la cui funzione storica si è esaurita dopo la fine della Guerra Fredda.

Rimane un fatto: in piazza Tahrir due anni fa c'è stata la rivoluzione. Ieri, un colpo di stato nella salsa più genuinamente “africana”. Perdonatemi l'aggettivo razzista ai limiti della stupidità, ma spero di aver centrato il punto. Morsi era stato eletto un anno fa democraticamente nelle prime elezioni libere della storia egiziana. Certo, era il leader della Fratellanza Musulmana, ma non era un jihadista: voglio dire, in un paese a maggioranza islamica, c'era da stupirsi de il candidato di un partito d'ispirazione religiosa avesse vinto le elezioni? Pensiamo alla nostra DC, o alla CDU in Germania...
Poi Morsi ha dimostrato di non essere quel cambiamento che le classi urbane egiziane -cioè la piazza, cioè la Rivoluzione- tanto attendevano, si è subito impostato con una dialettica limitatamente democratica. Le proteste di due mesi fa, con i morti che ricordavano i “martiri” uccisi sotto Mubarak, l'aspro dibattito sulla costituzione “fondamentalista” (art.2) -seppur approvata da un referendum- ha peggiorato la situazione, già gravata dall'incompetenza dimostrata dai nuovi eletti ed il poco carisma del Presidente, in un paese governato da millenni da faraoni, re e presidenti con pieni poteri.

Lode al popolo egiziano, almeno quella parte che entrerà nella Storia come la pizza Tahrir, perché credono ancora nella forza del cambiamento. Ma stiamo attenti a parlare di svolta, di rivoluzione democratica in Egitto. Perché quelli che ieri festeggiavano con urla,caroselli e fuochi d'artificio, invocavano l'intervento dell'esercito per destituire il presidente democraticamente eletto. Fatto puntualmente accaduto. Ma invocavano lo stesso esercito che due anni fa massacrava i giovani manifestanti, gli stessi quadri da cui sono emersi Nasser, Sadat e Mubarak, gli stessi militari che in fondo sono i detentori ultimi del potere in qualsiasi paese dove non si è sviluppata una democrazia solida, a maggior ragione l'Egitto.
Non dimentichiamoci poi che erano stati gli stessi militari a guidare il processo di “transizione” dal trentennio dell'ultimo faraone al “nuovo” Egitto, sospendendo anche la Costituzione. Storia che si è ripetuta ieri: ancora prima che Morsi venisse ufficialmente destituito, l'odiosa costituzione approvata l'anno scorso, è stata dichiarata sospesa.
Gli avvenimenti di ieri rappresentano, a mio parere, un pericoloso precedente per lo sviluppo della democrazia in Egitto. Perché ha unito i rivoluzionari di Tahrir con i colpevoli di “ieri”, ha trasformato l'esercito nel salvatore della Patria -ancora una volta- e decisore ultimo delle sorti della nazione. Gli è stato arrogato il diritto di “riportare sulla giusta strada” il paese in caso di pericoli e deviazioni. L'esercito che controlla la società civile, e non il contrario: così non sarà mai democrazia.
Probabilmente l'Egitto vivrà un periodo simile alla Turchia post-kemalista del dopoguerra, con tutte le eredità pesanti e drammatiche che un peso così importare conferito ai militari può arrecare.

I fatti egiziani degli ultimi giorni hanno però dimostrato qualcosa: che tutta la retorica sui pericoli dell'islam al potere, delle maggioranze silenziose e le minoranze facinorose sono delle grandi sciocchezze. Il fattore religioso non è stata una discriminante nella mobilitazione, ma la sua percezione di utilizzo ne è stata una giustificazione. La maggioranza che ha votato Morsi non è scesa in piazza e quindi ha perso la legittimità dell'esercizio del potere politico, in un paese che si è sentito rinato proprio lanciando pezzi di asfalto contro i carrarmati del regime.

Le rivoluzioni non si fanno con le canzoni ed i libri, ma con battaglie: e come tali sono i vincitori a scriverne e definirne l'eredità.

Ma in fin dei conti, se domani un giovane egiziano potrà dirsi più felice di ieri o di due anni fa, allora una rivoluzione non sarà andata proprio perduta.