24 gennaio 2014

Stati Uniti e Cina: perché diplomazia e relazioni economiche non bastano.

Ilaria Lezzi

Alla luce della decisione del governo cinese di creare una Zona di Identificazione per la Difesa Aerea con sorveglianza aerea sulla porzione marittima di sua prossimità, area che include anche l'arcipelago delle Senkaku/Diaoyu storicamente conteso col Giappone - e che, aumentando la tensione con Tokyo, tocca direttamente gli Stati Uniti, essendo questi gli unici garanti della difesa nipponica-, dell'irrisolta divisione coreana e delle relazioni serrate con Taiwan, la preoccupazione della Cina si chiama Stati Uniti d'America.

 Quella che potrebbe essere, considerato il peso della Cina nella bilancia internazionale, una chiara sfida per l'egemonia internazionale, è prima di tutto un regolamento di conti regionale. Gli Stati Uniti, infatti, sono il competitor principale delle sfide elencate e, in pianta stabile nella regione dal secondo dopoguerra, hanno annunciato di voler devolvere ancora il 60% del loro capitale militare aereo e marittimo.
Eppure nell'ultimo incontro con Obama, Xi Jinping ha espresso la volontà per un nuovo tipo di relazione tra "grandi potenze", puntando il faro sulla quasi assodata parità sino-americana. Sembrava che i due leader fossero sulla stessa lunghezza d'onda dal momento che le stesse intenzione sono state ribadite dal Presidente americano nell' ultimo G-20 di San Pietroburgo, citanto una "cooperazione pratica e una gestione costruttiva delle reciproche differenze,  a patto che la Cina mantenga una postura pacifica, prospera e stabile laddove ci sia un impegno statunitense in corso". Una Cina volenterosa di stringere nuove profonde alleanze con quella che è ancora la potenza egemone del globo, è una Cina che si rifiuta di credere allo storico ciclo in cui l'emesione e la caduta della potenza egemone sia portato inevitabilmente dal confronto militare e guadare piuttosto al mutuo beneficio e alla cooperazione attiva; gli ultimi due costituiscono uno dei cinque principi della “coesistenza pacifica”, pietra miliare della politica estera cinese sin dalla nascita della Repubblica popolare e riscontrabili, nel pratico, dalla sua emersione internazionale senza imbracciare un fucile, al punto di indurre la comunità internazionale a parlare della sua crescita globale solo in termini di soft power. Il punto è che ora, nella coesistenza pacifica, non si accontenta di essere l'alleato minor degli Stati Uniti. Chiede una co-responsabilità internazionale, situazione inedità nel cursus delle relazioni internazionali, manifestatasi solo in fasi di transizione ( pensiamo ad esempio alla Pax Russico-Britannica di fine '800 o alla -seppur con toni differenti- fase della coesistenza competitiva tra Stati Uniti e Unione Sovietica in guerra fredda). Un'ambizione tale scatusisce dal timore di essere tenuta dalla propria parte e a guinzaglio dagli Stati Uniti,essendo considerata la potenza ancora acerba, soprattutto nelle spinonose questioni della minaccia nucleare nord-coreana, i piani nucleari dell'Iran e la finanza globale che fanno scricchiolare il prestigio americano. Si sa, uno dei motivi per controllare un competitor è stringerci un'alleanza e questo i cinesi lo hanno capito. Pechino non si aspetta di essere consultata sulle scottanti questioni internazionali: si aspetta di avere un ruolo maggiore, se non preminente, nell'agenda internazionale. Dal canto suo, Washington, rivendica lo status eccezionale, ancorati al credo che i loro valori siano giusti universalmente e nel loro perenne desiderio di forgiare il "mondo libero e democratico”. Alcuni studiosi ci vedono uno strascico della guerra fredda: gli Stati Uniti, ferocemente accecati dalla competizione ideologica a maggior ragione se l'alter ego si chiama comunismo, non transigono sulla possibilità di cooperare a tutto tondo con un'altra potenza, non solo perché questa è emergente ma anche solo perché è ideologicamente contraria alla loro impostazione di valori. Ed effettivamente la differenza valoriale e comportamentale c'è tutta: laddove i cinesi danno priorità al rapido sviluppo e alla protezione dell'ordine interno, i leader americani vi inviano forze militari per sovvertire. Differenza che si riscontra nello stesso modo di intendere il sistema internazionale: se gli Stati Uniti intendono impedire che il riciclo di potenza si concretizzi, i cinesi vogliono cambiare la stessa impostazione di sistema e, quindi, non sovvertirlo. Cambiare le regole del gioco. Finché queste regole permarranno – le mosse americane di accerchiamento regionale stringendo alleanze con i Paesi vicini della Cina ( Asia Pacific Treaty Organization n.d.r.),  esercitazioni militari in acque prossime alla Cina, aiuti militari a vicini competitors cinesi ( il sostegno al Vietnam, le storiche relazioni col Giappone, Corea del Sud e Taiwan)-, alla Cina non rimane altro che giocare con le stesse carte: sotto questa luce, la già citata Zona di Identificazione per la Difesa Aerea dello scorso novembre non sarebbe da considerarsi una misura aggressiva, seppur espressione di difesa preventiva, verso gli Stati Uniti, ma piuttosto semplice reazione alle loro ingombranti attitudini. Gli Stati Uniti sono infatti ossessionati dagli indici della spesa militare cinese e dal mantenere un gap di distanza sostenuto, vedendoci in questo la misura "dello status di potenza".
Aldilà del rispettivo orgoglio, se da un lato una solida cooperazione potrebbe concretizzarsi sulle regole di demilitarizzazione e esplorazione dello spazio, la ricerca della stabilità finanziaria internazionale, la protezione dell'ambiente, l'assistenza umanitaria, l'adozione di un codice di prevenzione e soluzione degli attacchi cibernetici, episodi passati rimarcano il solco della profonda differenza che separa i due giganti, orgoglio a parte. Ad esempio, la Siria ha mostrato che trattare congiuntamente la repressione delle dittature  è strada impensabile. In compenso nulla da dire sulla condivisa preoccupazione su Chernobyl nel 1986, sulla crisi finanziaria asiatica del 1997-98, sullo tsunami nel sud-est asiatico del 2008, sulla crisi finanziaria internazionale del 2008, su Hiroshima nel 2011. Insomma: laddove non sono in gioco contese valoriali e presunzioni politiche, la Cina e gli Stati Uniti hanno dimostrato di saper andare d'accordo.

Che valenza ha, allora, parlare di una cooperazione sino-americana? Esiste forse qualche vincolo internazionale che forza i due giganti ad allearsi? Però entrambi hanno manifestato  e ribadito reciproca volontà a riguardo. Fino a quando gli Stati Uniti lo vedranno come un modo per contenere la potenza emergente, la Cina avrà la percezione da essere trattata come una sotto-potenza da essere tenuta a bada o, ancor di più, come spalla per un sicuro supporto alle decisioni scomode che gli Stati Uniti si sentono legittimati a prendere nelle controversie internazionali. Fino a quando la Cina lo vedrà un modo tenersi allenata ed al corrente delle sfide politiche ed economiche globali, gli Stati Uniti la percepiranno come un approfittarsi nel bruciare le tappe verso l'egemonia del mondo. Il mondo intero, allora, si interroga su quale sarà la data del prossimo scontro tra potenze. A questo punto, se le regole del gioco internazionale rimarranno queste, non rimane che il risultato più plausibile. Ma non è compito nostro, comuni umani, fare congetture sul futuro.