16 agosto 2011

Dio salvi il Re, o almeno le democrazie. Le monarchie possono aiutare la governance?


Nel Regno Unito la monarchia rimane
uno dei principali simboli di identità nazionale
Negli ultimi anni si è inserito nel dibattito politico un soggetto apparentemente antico, ma che appunto ha acquistato popolarità, soprattutto in occasione di matrimoni ed altre cerimonie solenni: sto parlando dell’attualità della monarchia, nel senso di una forma di governo democraticamente giustificabile e funzionante nel terzo millennio.
Chi scrive è assolutamente contrario alla monarchia intesa come esercizio dei poteri di governo da parte di un’unica persona secondo metodi di selezione ereditari nell’ambito di una famiglia o comunanza di sangue. L’idea di un'unica persona che governa perché ha determinate qualità è troppo pericolosa al giorno d’oggi.
Alla fine del secolo scorso la monarchia risultava (se non ancora) una vestigia politica un po’ negletta, tradizionale, simbolo  e difesa di antichi privilegi, al massimo una sezione dei giornali di gossip. Ed in effetti poche monarchie si sforzavano di dimostrare il contrario. Basti pensare al super mediatico evento matrimonio di Lady Diana Spencer con il principe di Galles: lei, abbigliata come un’enorme meringona scintillante e bizzarra che attraversa la navata centrale di St. Paul’s Cathedral, verso un matrimonio combinato ed un triste finale parigino che tutti conoscono. Trent’anni dopo si prospetta uno scenario diverso. In un periodo di instabilità e grandi cambiamenti sociali e tecnologici, alcuni tra gli stati più “lodati”, modelli presi ad esempio dagli altri, evoluti sul fronte dei diritti umani e sociali, hanno delle teste coronate a capo di essi. Bisogna inoltre considerare altri fattori: la crisi delle democrazie occidentali, della loro governance e della loro leadership. L’attuale crisi economico-finanziaria non è che un aspetto di questo macrofenomeno più pericoloso, il quale s’inserisce in un conteso di crisi di legittimità dello stato nazionale e della democrazia, minati dalla globalizzazione, dai movimenti localisti, dai fondamentalismi religiosi. La primavera araba, le rivolte sociali di quest’ultimo decennio, la crisi finanziaria e quindi quella dell’euro e dell’Unione Europea sono figlie della stessa madre, cioè la decadenza di un “impero globale”, politico, economico e culturale di cui si erano fatti in primis portavoce gli Stati Uniti, con l’apogeo negli anni ’90 dopo la caduta del Muro, e che ora comincia a cadere.  Anche da qui vengono rispolverate le questioni sulla postmodernità delle monarchie, in due direttrici: in senso nostalgico, nazional-localista (anti globalizzazione e conservatore) e culturale, oppure in puro senso di funzione politica ed influenza quindi sulle dinamiche della governance di uno stato. Tratteremo di questo secondo aspetto, senza voler arrivare a conclusioni declaratorie, visto anche l’esiguo numero di campioni che ci accingiamo ad esaminare.
Il mestiere del re è, insieme a quello per molti versi analogo della prostituta, uno dei più antichi del mondo. Basti pensare che la  forma latina di “c’era una volta”, inteso antropologicamente come la narrazione di una storia antichissima, è erant in quadam civitate rex et regina (Apuleio, Metamorfosi, IV,28). Fino al diciannovesimo secolo è stata la forma di governo monarchica la più numericamente estesa, in parallelo al dominio europeo del mondo. Alla data di oggi, esistono al mondo 204 entità statali. Di queste, 44 sono delle monarchie. In Europa abbiamo ne abbiamo 12, che potremo suddividere in modo seguente: le monarchie dei microstati inutili ( Lussemburgo, Monaco, Andorra, Liechtenstein ed il Vaticano),  le monarchie del Nord Europa ( Danimarca, Svezia, Norvegia e Paesi Bassi), le monarchie particolari (Spagna, Belgio e Regno Unito). Il primo gruppo racchiude quegli staterelli/paradisi fiscali/centri di riciclaggio rimasti in vita per dimenticanze o particolarità storiche. Qui le monarchie hanno funzioni diverse:  sovrano assoluto il papa, principe ex officio il diarca di Andorra,  attore di operetta kitsch/trash a Monaco. Gli altri due gruppi presentano caratteristiche pressoché tutte eguali, come quella di rappresentante dell’unità ed identità nazionale, ma con appunto i tre casi particolari: il Regno Unito fa parte del Commonwealth (cioè l’arzilla vecchietta coronata è regina, tramite l’unione personale, di altri 15 stati dispersi per il mondo, dall’Australia alla Jamaica); la Spagna invece è uno dei rarissimi casi di restaurazione monarchica  e contemporanea mente democratica nell’età contemporanea, dovuta alla fine della dittatura franchista; infine in Belgio il re è l’unico garante e rappresentante dell’unità di una nazione divisa culturalmente e linguisticamente.
L’argomento principale è il seguente: può la monarchia, al giorno d’oggi, essere garanzia di tutela della vita e della dinamica democratica di un paese, favorendone addirittura la governance, attenuando i conflitti interni? Quando prima scrivevo di crisi dell’impero globale mi riferivo anche alla crisi degli Stati Uniti come iperpotenza, come modello politico (ma il resto del suo soft power rimane ben saldo). I padri fondatori statunitensi hanno creato un modello federale e soprattutto presidenziale che è stato il più ricalcato nella storia successiva. Guarda caso lo chiamavano una “monarchia repubblicana”. Ed oggi, il presidenzialismo, come forma di governo, tranne alcuni casi, è quella alla base di molti regimi sparsi per il mondo.
Consideriamo il secondo gruppo, fra gli stati annoverati ci sono quelli più evoluti al mondo, a livello di socialdemocrazie e tutela dei diritti. Certo, non è stata l’attività dei re a portare a codesti risultati, ma la presenza continuativa di un monarca, con l’assenza di scontri tra capo di stato e di governo (dovuta all’incapacità costituzionale del primo di intervenire pesantemente in politica), la sua funzione catalizzatrice di diverse correnti politiche , unita a quella di deterrente in quanto portatore di vasti consensi , hanno aiutato nella giusta direzione.  Proviamo a fare un esempio specifico. Alcuni tra i paesi dove sono nati i primi movimenti femministi o che sono stati all’avanguardia per l’uguaglianza dei sessi, hanno avuto nella loro storia sovrane donne, esempi di governi forti e/o capaci. E qui appunto che entra in gioco la percezione comune che aiuta ad evolvere il pensiero delle masse su certe questioni. Il nocciolo della questione, sostenuto anche dai monarchisti attuali desiderosi di restaurazioni qua e là per il mondo, verte sulla figura istituzionale del monarca/capo di stato. Egli emana la sovranità ma non la esercita (come la regina britannica regna ma non governa), è il garante ed il protettore del sistema politico ma allo stesso tempo non ci influisce, essendo super partes e soprattutto selezionato in modo totalmente apolitico, dunque non è espressione di una maggioranza temporanea, è identificato con i princìpi basilari della nazione e quindi opera per smussare le fratture interne, ed infine è costretto a legittimare legalmente il governo.  Questo è quello che ci interessa sul piano politico. Socialmente ed antropologicamente parlando, non tratteremo del rapporto morboso tra popolazione e famiglie reali che si evince dalle paginate di gossip, ma ci si limita ad una piccola riflessione attuale. Le monarchie sono tornate popolari anche perché, in tempi di crisi come questa, il loro sfarzo sobrio e dignitoso sembra meno opulento ed inopportuno di presidenti repubblicani che abitano in mega ville pacchiane, o vips dalle vite ridicolamente dispendiose? Ai posteri l’ardua sentenza. Riprendendo il lato politico della faccenda aggiungiamo che sono ottime socialdemocrazie anche gli altri due paesi scandinavi, Finlandia ed Islanda, ma i presidenti della repubblica hanno mandati lunghi e spesso vengono rieletti, in nome della continuità istituzionale, e guarda caso, nelle foto ufficiali del matrimonio della principessa ereditaria svedese, gli unici insieme alle teste coronate scandinave vi erano i presidenti dei suddetti stati.  Anche i nostri padri costituenti, scrivendo le caratteristiche del capo dello stato, hanno scelto pochi poteri ed un lungo mandato. Invece i (semi)presidenzialismi d’ispirazione statunitense e francese hanno un capo dello stato forte ed uno del governo debole.  Il fine è sempre lo stesso, solo che nel secondo caso la dinamica democratica è messa più a rischio, al contrario di uno stato dove la divisione dei poteri è sancita da leggi fuori dal gioco politico, quelle “naturali ed intoccabili” della successione ereditaria.  Consideriamo l’altra faccia della medaglia: in alcuni casi, l’abbattimento delle monarchie non ha portato ad un tangibile e sostanziale miglioramento della governance politica, come insegnano i casi del Portogallo, della Grecia o del più recente Nepal – anche se questo non vuol dire che le monarchie si fossero comportate meglio, soprattutto nel caso ellenico -.  Ci si può spingere fino a citare proposte di restaurazione monarchica,  che hanno visto la luce solo nel caso spagnolo e cambogiano. Così in Montenegro, dove mancano forti simboli d’identità nazionale, Albania e Georgia, dove le guerre secessioniste e la vicinanza scomoda del gigante russo fanno rimpiangere i tempi “gloriosi” della dinastia dei Bagrationi. Ed infine la Bulgaria, che ha avuto come inefficace primo ministro l'ex zar spodestato dai sovietici.
Analizziamo ora un ultimo aspetto, sempre riferito alla tutela della governance e della stabilità democratica di un paese.  Si tratta del rapporto tra monarchie e populismo. Secondo alcuni studiosi, quest’ideologia non può trovare troppo terreno fertile nei regni europei, in quanto il sovrano  - inteso nella sua espressione di modello di famiglia, di potere, di religione dominante tradizionalmente in quello stato e palese rappresentante del passato e della storia nazionale – funge da catalizzatore delle istanze più estremiste di questi movimenti. Ed infatti quelli più estremi e grotteschi si sono sviluppati in seno a repubbliche (Lega Nord, berlusconismo, Front National, Tea Parties…). I più attenti osservatori politici noteranno che ho tralasciato volontariamente i casi dell’olandese Gert Wilders, della danese Pia Kjærsgaard, dello svedese Jimmie Åkesson e del britannico Nick Griffin. Nei loro paesi l’ascesa di movimenti populisti di estrema destra è collegata alle questioni dell’immigrazione, soprattutto di matrice islamica, a loro volta figlie dei macrofenomeni citati all’inizio di questo post. Oppure il caso del Vlaams Belang in Belgio, dove alle questione appena menzionate si aggiunge il separatismo fiammingo. Anche nel caso nostrano, quello del fascismo, c’è da sottolineare come la convivenza fra monarchia e dittatura sia stata dovuta alla situazione particolare dell’Italia del primo dopoguerra e soprattutto ad un contesto storico totalmente differente.  Comunque il nano malefico di turno aveva nei suoi progetti di sbarazzarsi della monarchia (la quale ci aveva già pensato con le sue mani), la cui presenza ha sempre impedito all’Italia di essere una dittatura totalitaria al 100% - ma non meno incivile e sanguinaria!
Non possiamo certo dire che le monarchie siano migliori delle repubbliche e perdersi in inutili disquisizioni teoriche, ma c’è da pensare che, se al giorno d’oggi si ritorna a parlare di forme di governo antichissime nate in altri contesti storici, della loro importanza per le democrazie attuali, non resta che riflettere in quale rischio di deficit culturale ci troviamo, abbandonando la ricerca di soluzioni adeguate e figlie dei loro tempi.
BARBA