di Francesco Pignotti
Studiare scienza
politica mi porta molto spesso a dimenticarmi che questa non è altro che lo
studio con metodo scientifico della politica, ovvero di quell’attività che
dovrebbe coincidere con l’amministrazione della polis per il bene comune, per il bene di tutti i suoi cittadini.
In definitiva mi
dimentico di quale sia il fine ultimo della politica quando studio o scrivo
della difficile formazione di un governo, del risultato non
decisivo di
elezioni parlamentari; me ne dimentico quando scrivo di quali siano i problemi
interni ad un’organizzazione di partito che lo conducono al fallimento, o di
come potrebbe essere riformata efficacemente una legge elettorale. E devo
ammettere che dimenticarmene in fondo non mi dispiace. Non mi dispiace
dimenticare quale sia il fine ultimo di quell’attività che si chiama politica.
Forse è solamente una
maniera per eludere il problema, il vero problema. O forse è un modo di
affrontarlo in maniera scientifica e rigorosa, analizzandolo nei suoi singoli,
specifici e particolari elementi, anche con la voglia e la speranza di poter
migliorare le cose.
Non saprei dire; ma
quel che è certo è che la politica, quella nobile che significa amministrazione
della polis, è in crisi.
E se smetto di
dimenticarmi di quale sia il fine della politica, me ne accorgo.
Drammaticamente.
“Fate presto”,
esclamano coloro ai quali non interessa se “non ci sono i numeri”, se “Grillo è
coerente col suo programma”, se “il Presidente della Repubblica non può
sciogliere le Camere nel semestre bianco”, se “un governo deve avere la fiducia
espressa da parte di entrambe le Camere”.
“Fate presto”, esclama
chi vede il suo futuro, quando non il suo presente, irrimediabilmente
compromesso. A chi la crisi – in senso lato – brucia sulla pelle non
interessano meccanismi, numeri, procedure. Non sono una giustificazione
sufficiente.
E se smetto di
dimenticare, per un attimo non lo sono più neanche per me. Per me che vivo da ultra-privilegiato
e che pure misuro il futuro nell’orizzonte temporale – esagero – di un anno. Perché dopo non si sa.
Leggo della vicenda del
triplice suicidio di Civitanova Marche; ascolto di un ladro che nella mia
regione, a sessant’anni, pensionato dopo una vita di lavoro, si mette a rubare
50 euro nella casa di chi poi decide, l’indomani, di assumerlo come
giardiniere, perché quei 50 euro in più al mese siano d’ora in poi il compenso
per aver tagliato l’erba.
Se smetto di
dimenticare mi accorgo di quanto la politica sia impotente nel realizzare il
bene di tutti i cittadini.
Osservo i parlamentari
pentastellati riunirsi in gran segreto per ricompattarsi agli ordini del verbo
di un blogger; ascolto Davide Serra, finanziere e principale finanziatore della
recente campagna elettorale di Matteo Renzi, e la sua spericolata
“intraprendenza” à là Gordon Gekko mi
fa improvvisamente paura; assisto all’arroccamento su posizioni sempre più
insostenibili da parte del principale partito di centrosinistra e dei suoi
dirigenti, nell’intento di mantenere in vita un apparato che mira oramai
solamente a perpetuarsi e riprodursi; sento fare il nome di Amato come
possibile nuovo Presidente della Repubblica, e mi chiedo se si tratta di
quell’Amato che 20 anni guidava il governo che propose in aula di depenalizzare
il finanziamento illecito ai partiti, che negli anni ’80, sottoforma di
mazzette, è stata una delle principali cause dell’esplosione del debito
pubblico che adesso mette in forse il nostro futuro e il presente di molti.
Ascolto, osservo,
assisto. E ciò che ho di fronte comincia a far paura.
Meglio dimenticare.
Dimenticare quale sia il compito della politica, e continuare a studiarla ed
analizzarla.
Forse è eludere il
problema. Ma magari serve a qualcosa.