Homo homini lupus
Piazza Tahrir, al Cairo, simbolo della rivoluzione egiziana |
soprattutto la conservazione del potere, sotto ogni aspetto, dalla penetrazione economica, militare fino all'influenza culturale. Quest'affermazione puramente realista mi porta però a prendere le distanze dalla stessa corrente di pensiero, poiché nel mondo d'oggi sarebbe una presa di posizione riduttiva, considerando che ci sono anche le ONG, personalità,o movimenti influenti che hanno altri obiettivi rispetto al potere fine a se stesso.
Ma voglio fare la parte dell'avvocato del diavolo, portando il dubbio all'estremo. E se anche le « cose buone » della politica internazionale, o meglio della sua mitologia, come una rivoluzione democratica per rovesciare un dittatore, fossero figlie d' intrighi di palazzo? La tentazione braudeliana di mischiare microeventi con macrofenomeni, la grande e la piccola storia, appunto il tutto ed il niente, è incombente. Tuttavia in un mondo fluido e globalizzato come il nostro tutto è possibile, e proverò a mettere in relazione qualche evento, tracciando una storia, estrapolando qualche considerazione, lasciando però la questione meravigliosamente aperta.
Non sono uno scrittore, ma qui abbiamo tutti gli ingredienti che servirebbero per scrivere un romanzo d'appendice dei giorni nostri, ai limiti della fantapolitica e della politica oscura. E' una storia che mescola le verdi montagne dei Balcani, i palazzi del potere di Washington, partite di calcio, grassi sceicchi, il petrolio del deserto, emittenti televisive, social networks, i servizi segreti del Cremlino, rivoluzioni, le steppe dell'Asia centrale e l'ascesa della Cina. Le mosse delle pedine sullo scacchiere sono in certi casi difficili da collegare, ma forse possono avere tutte lo stesso fine, il più antico, il più umano: il potere.
Tuttavia, ai fini della questione iniziale, porrò l'accento sul rapporto tra quest'ultimo e l'informazione, i
mass media, ma soprattutto internet ed i mezzi di mobilitazione di massa.
Democrazie à la carte
mass media, ma soprattutto internet ed i mezzi di mobilitazione di massa.
Democrazie à la carte
Approssimando grossolanamente la geopolitica, si potrebbe osservare la mappa del mondo secondo un criterio alquanto banale e superficiale, ma comunque cogliente certi aspetti importanti: democrazie e “non democrazie”. Ora, avremmo una fascia di paesi “non liberi” (con qualche eccezione) che parte dall'Africa del sud, copre tutto il continente e poi va verso il Medio Oriente, la penisola araba, l'Asia centrale, la Russia, la Cina fino al sud-est ed il Mar Giallo. Molto spesso i capi dei regimi compresi in quest'ipotetica fascia sono indicati come “amici dell'Occidente” o “buoni presidenti” e sono tranquillamente accettati ai summits internazionali, magari anche per stipulare accordi economici o commerciali. Magari, per aumentare la finzione scenica, le consorti di questi dittatori (pseudo e cripto-tali), compaiono spesso sui rotocalchi mondiali, vestite à la mode occidentale, ambasciatrici di cause umanitarie e dei diritti dei più poveri. E così via, finché ci si dimentica volontariamente che le dittature rimangono quello schifo che sono, anche se si camuffano con griffe “democratiche”. Almeno finché regge il giuoco degli interessi.
La visibilità e l'importanza di questo mascheramento aumentano proporzionalmente con la posizione strategica dei paesi interessati. Concentriamoci sulla zona centrale della suddetta fascia: il Medio Oriente. Laggiù il copione calzava a pennello a molte dittature, solo che poi con la primavera araba alcune stanno saltando. Così l'Occidente si è ricordato che quei paesi erano governati da dittature, ha spinto e sta spingendo per far cadere i tiranni, ma solo quelli più scomodi. Non è una fortuna se Rania di Giordania o Moza del Qatar continueranno ad andare a Davos come se fosse una sfilata di moda, mentre Suzanne Mubarak ed Asma al-Assad sono state radiate dall'aristocrazia internazionale.
Qatar: dalle perle alle palle (da calcio)
Qatar: dalle perle alle palle (da calcio)
Analizziamo quindi un caso particolare, quello del Qatar.
Grande quanto la metà della Toscana, quest'emirato è uno degli stati più ricchi del mondo e con grandi ambizioni da giocare sullo scacchiere politico internazionale. Retto dalla famiglia al-Thani, l'attuale sovrano Hamad bin Kalifa è il classico sultano obeso e baffuto salito al potere dopo una congiura di palazzo nel 1995. Nel 2000 egli è stato decorato con l'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, come Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone, il riconoscimento onorifico più alto del nostro paese. La storia del Qatar è indissolubilmente legata alla sua posizione strategica nel golfo Persico, essendo come una verruca della penisola arabica sporta in questa propaggine dell'Oceano Indiano. Antica colonia portoghese, in quanto importante centro del commercio mondiale di perle (soprattutto nere), come il suo vicino Bahrein al quale è stato assoggettato prima di diventare parte dell'Impero Ottomano, è divenuto protettorato inglese fino al 1971. Già negli anni '50 erano state scoperte le seconde riserve più grandi del mondo di gas (25,46 trilioni di m³), a cui bisognava aggiungere, ça va sans dire, gli imponenti giacimenti petroliferi.
Et voilà, nel giro di pochi decenni il Qatar diventa lo stato più ricco al mondo: con un Pil pro capite tra i 130.000 ed 145.000 dollari, nonostante una vertiginosa crescita demografica che - relativamente alle dimensioni dell'emirato - ha più che triplicato la popolazione dalla fine degli anni '60 (88.000 abitanti) ai 300.000 di oggi. Inoltre il 40% dei cittadini ha legami di sangue con la famiglia reale. Potrei lanciare qualche altro dato impressionante, come il tasso di disoccupazione più basso del mondo (0,5%), un svedese coefficiente di Gini dello 0,2% (esso misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza in una nazione), la spesa per l'istruzione pari al 4%, sic, del bilancio statale. Dopo il golpe con cui ha spodestato il padre in vacanza in Svizzera, l'emiro Hamad ha “liberalizzato” il paese, ottriando per esempio il suffragio alle donne, permettendo l'uso di alcol in privato negli alberghi di lusso, aprendo le porte a prestigiose università americane ed europee, lanciando Doha come capitale culturale della regione, grazie anche alla costruzione del magnifico (dicono) Museo di Arti Islamiche, infine offrendo agli USA una delle più importanti basi per invadere l'Iraq nel 2003. Strumento indispensabile per questa politica di lifting occidentale è anche la seconda moglie dello sceicco, la passion for fashion Moza. Laureata, senza velo, griffata, la sultana che ha portato le università occidentali nel paese, è sempre sotto l'attenzione della stampa estera, dalla quale viene dipinta come paladina dei diritti delle donne nell'emirato ed in generale nel mondo islamico. Il figlio prediletto della sceicca, nonché principe ereditario, è a capo del fondo sovrano dell'emirato, il Qatar Investiment Authority, che possiede la Miramax Film, la squadra di calcio PSG, Harrod's e Sainsbury's, senza contare grandi investimenti nel Crédit Suisse, nelle Agricultaral e Industrial and Commercial Bank of China, nella Volkswagen e così via. Che scintillio.
La sceicca Moza, la first lady Michelle Obama, l'emiro Hamad del Qatar ed il presidente USA Obama |
Altro punto, il paese è in parte retto dalla sharīʿa, che si applica in particolare al diritto di famiglia, penale, ereditario, con tutte le conseguenze sociali che essa comporta.
La danza del ventre come diplomazia
La danza del ventre come diplomazia
Ma i lungimiranti sovrani del Qatar stanno giocando una grossa partita: imporsi come pedina fondamentale negli equilibri regionali, in modo tale da preservare in un futuro molto lungo l'importanza dell'emirato. E per perseguire tale obiettivo giocano principalmente su due fronti: una politica estera dinamica, improntata quasi alla teoria di nostrana mussoliniana memoria del “peso determinante”, condita da una democratizzazione del paese presunta o reale, e l'uso su scala mondiale dei mass media, o meglio, di AlJaazera.
La prima strategia si basa in primis sull'accreditare il Qatar come il migliore interlocutore dell'Occidente nella regione geostrategica più importante di questi decenni. Da ciò scaturisce la democratizzazione di facciata in un paese dove in quarant'anni non ci sono mai state elezioni su scala nazionale. Come ha affermato Alma Safira in Limes “la democrazia non è vista come un sistema politico basato sul suffragio universale, ma come uno status che bisogna adottare se si vuol stare tra i potenti del mondo senza sentirsi dei paria”. Ecco spiegati tutti i sopracitati “ritocchi” al sistema promossi dallo sceicco ed elogiati dall'Occidente. Invero, la primavera araba, la caduta di Ben Alì, Mubarak e Gheddaffi, il declino di Israele come unica democrazia della regione, hanno favorito il piccolo emirato nel suo progetto. I diversi scacchieri di proiezione internazionale e diplomatica aiutano ancora di più: posizione strategica nel Golfo Persico, membro dell'OPEC, maggiore produttore mondiale (insieme ad Iran e Russia) di gas, stato privilegiato dall'Occidente tra quelli arabi per “democrazia”, ma soprattutto per la stabilità. A maggior ragione ora che l'Arabia Saudita comincia con il suo fanatismo wahabita ad essere poco ben digerita dall'opinione pubblica occidentale e che la lotta per la successione all'ottugenario re la paralizza. Così il Qatar ha sedotto l'Europa e gli USA ed è, come previsto dai piani, entrato nei giochi: prima come mediatore internazionale, come nel caso del Darfur,o dell'Etiopia con l'Eritrea, o tra Hamas e Fatah nella questione palestinese, poi anche militarmente: unico tra la Lega Araba, insieme alla Giordania ed agli UAE, ha inviato in Libia 12 aerei e cospicui finanziamenti non ufficiali ai ribelli.
Tutta questa grandeur è possibile non solo ai doni di madre natura (posizione e gas), ma al “valore” che i paesi occidentali apprezzano più di tutti, più della democrazia, in questa regione, soprattutto nelle attuali circostanze storiche: la stabilità. E' lo stesso motivo perché il culone di un vecchio ottantenne è più importante della qualità di vita e dei diritti di milioni di cittadini, allorchè siede su un trono che controlla le più grandi risorse petrolifere del mondo (parlo dei Sauditi, eh). In fin dei conti, la democrazia è buona solo come prodotto di pubblicità, di investimenti ed al massimo da esportare in certi casi, ma con molti costi. Invece la stabilità paga. Rende molti quattrini. Lo sanno appunto molto bene i sovrani del Qatar, paese in cui l'onda della primavera araba è arrivata solo debole come spruzzi di schiuma sul bagnasciuga. Le rivoluzioni in Medio Oriente non sono state causate principalmente dalla ricerca di libertà, ma dalla fame, dalla disperazione dei giovani, dalla disoccupazione, da una generazione senza futuro, amputata dalle sue classi dirigenti clepto-plutocratiche,l'assenza di uno stato di diritto e da regimi polizieschi. In Qatar la ricchezza è stata distribuita a tutti, proprio per la sua opulenza, nessuno ha interesse a rovesciare lo status quo. Le elezioni? Si faranno un altro giorno, poco importa. Non a caso, nel famoso Arab unrest index del The Economis, ribattezzato “The Shoe-Thrower's index” (clicca QUI, Bush ringrazia ancora), l'emirato è l'ultimo tra i paesi « a rischio » di rivoluzione.
Così cadranno solo i dittatori del Nord Africa, ma non quelli del piccolo Medio Oriente: laggiù la posta in gioco, strategica, è fondamentale. Così le crudeltà di Assad passano in secondo piano a quelle di Gheddaffi. E quando l'ondata è arrivata nel pivot della regione, la penisola arabica, nessuno ha battuto ciglio: lo Yemen, lasciato a se stesso, in una situazione da tragedia simile a quella della “caduta degli dèi”, oppure il caso emblematico del Bahrein. In quest'isola-stato, molto simile per aspetti socio-economici al Qatar, la maggioranza della popolazione è sciita, mentre al dinastia regnante è sunnita. A metà marzo, mentre il mondo era concentrato sul quasi intervento militare in Libia, i cittadini del Bahrein protestavano pacificamente per ottenere una monarchia costituzionale ed eguali diritti per la maggioranza sciita. Prima la polizia ha stroncato, con morti e torture la protesta, poi il Consiglio di Cooperazione del Golfo, la santa alleanza dell'ancien régime arabico, ha inviato su richiesta dello sceicco i carri armati, tramite il ponte di collegamento con l'Arabia Saudita. A Budapest nel '56 il mondo s'indignò, ed alla storia fu regalata la sua mitologia, per i fatti di Manama nessuno in occidente, Obama compreso, ha speso una parola, ed essi cadranno nell'oblio. Il sancta sanctorum dell'economia mondiale è stato quasi intaccato. Segretamente i nostri leaders hanno gioito. Le reazioni indignate a questo crimine hanno provocato al massimo il rinvio del Gran Premio di Formula 1 del Bahrein (non l'annullamento!) e la cancellazione del principe ereditario dalla lista degli invitati al matrimonio dei duchi di Cambridge. Tirati su. Come ho scritto prima, la stabilità dei nostri interessi ha un peso maggiore che la favola della democrazia, blockbuster venduto alle masse emergenti di questo secolo come se fosse un prodotto del supermercato, e non raggiungibile solo tramite lunghi processi di formazione di autocoscienza civile, che richiedono evidentemente, purtroppo ancora oggi, un sacrificio di sangue. E' dal sangue che nascono le rivoluzioni, dal punto di rottura, dal concetto antitetico opposto alla stabilità e la conservazione. E così che si continueranno a giocare i grandi cambiamenti della storia.
Il lancio della scarpa è considerato nel mondo arabo come un gesto di assoluto disprezzo, celebre fu quello contro il presidente Bush |
[continua...]
BARBA
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