di Filippo Barbagli
Domani, il
22 marzo 2013, scade il permesso speciale concesso dalla corte del
Kerala ai due fucilieri italiani della brigata San Marco, accusati di
aver ucciso due pescatori indiani lo scorso 15 febbraio 2012. ''I
nostri ragazzi'' -così l'appellativo affibbiato da politici e
giornalisti populisti- erano già potuti tornare in patria per le
vacanze natalizie, ed il permesso era stato concesso una seconda
volta per votare alle elezioni di fine febbraio. Allora
l'ambasciatore italiano, Mancini, s'impegnò solennemente sul ritorno
dei due marò in India. L'11 marzo, il ministro degli esteri Terzi ha
fatto sapere (ribadendolo poi via Twitter) che i due militari
resteranno in Italia per essere qui giudicati. Si è aperta quindi
una crisi politica, oltre a quella diplomatica già in atto da un
anno, che rischia di assumere toni più gravi: se entro domani i marò
non torneranno in India, l'Italia avrà ufficialmente violato degli
impegni internazionali.
Una vicenda complicata
Al contrario
di altri, l'aver sostenuto un esame di diritto internazionale non fa
di me un esperto di diritto del mare, quindi non m'interessa
dilungarmi sulla presunta innocenza o colpevolezza dei due soldati
italiani, quello è compito dell'autorità che li giudicherà in modo
definitivo. In più ammetto di non aver seguito sempre con interesse
l'intera vicenda, però adesso mi sento di fare qualche
considerazione. In primis guardiamo ai fatti: i due marò italiani
hanno ucciso due pescatori indiani nell'ambito di un'operazione
internazionale contro la pirateria. Questo è il punto di partenza
chiaro.
Per un anno
abbiamo assistito ad un braccio di ferro diplomatico tra una media
potenza in declino ed una grande potenza in ascesa. Probabilmente,
per ragioni di status a cui entrambi i paesi non vogliono rinunciare,
la faccenda si sarebbe conclusa con una sentenza della corte indiana
che avrebbe comunque permesso ai due militari di scontare la pena in
Italia. Ma adesso la situazione è cambiata. Ed il presunto coup
de main della Farnesina ha
complicato drammaticamente tutto.
Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Impedire
infatti alla corte del Kerala di esprimersi sull'accaduto è una
colpa imperdonabile. In primo luogo perché non si sono rispettati
gli impegni internazionali. Pacta servanda sunt, dicevano i nostri tanto celebrati antenati. Lo abbiamo forse dimenticato? In secondo perché si legittima l'idea,
apertamente razzista, che un tribunale indiano sia meno “giusto”
ed efficiente di uno italiano. Infine, perché se i “due ragazzi”
fossero stati veramente innocenti, non avrebbero avuto problemi a
rimanere nel paese degli accusatori. Insomma, della serie: “sì,
non sono colpevole....ma intanto scappo”. Terzi ha agito in maniera
gretta e sconsiderata: tale azione, tra l'altro, avrebbe potuto
compierla solo un ministro nel pieno delle sue funzioni, non quelle
di un governo da mesi dimissionario e funzionante solo per gli affari
correnti. In questo modo lascia in eredità una crisi difficile al
futuro governo, se mai uno forte si formerà in questi giorni,
considerata anche la situazione politica interna al nostro paese. E'
stato quindi un gesto totalmente sconsiderato e populista. Potrei
anche dire che forse è stato influenzato anche dall'ondata populista
che ha travolto l'Italia nelle ultime settimane, e quindi dalla
volontà del governo di cercare di accreditarsi presso i cittadini
per uscire in bellezza, e non più detestati di un Berlusconi
fischiato nel novembre del 2011. Ma in effetti, se consideriamo la
tenuta di Terzi come ministro degli esteri, non è stato tanto meglio
di un Frattini. Una macchietta, nonostante l'essere un diplomatico di
alto livello. Peccato.
Monti: credibilità internazionale?
Quindi,
ancora una volta, l'Italia non ha rispettato i patti presi a livello
internazionale. Evidentemente è un “vizietto” della nostra
classe politica e diplomatica sin dai tempi della Triplice Alleanza.
Aggiungerei anche un po' patetico, visto che tale impostazione non ha
neanche mai rispecchiato azioni proficue di Realpolitik nel corso
della storia. Nel nostro caso poi, tale gesto si colora di una patina
quasi da commedia pirandelliana: un governo che per un anno e mezzo
ha fatto della credibilità internazionale la sua legittimazione
democratica, il suo modus vivendi ed operandi, permette al suo
rappresentante sulla scena mondiale di violare apertamente gli
accordi presi con un grande paese. Fosse stato almeno il governo
delle Maldive, avremmo avuto qualche possibilità almeno (con tutto
il rispetto dei signori governati a Malè, ovviamente)! Invece no, ci
troviamo a lottare diplomaticamente con la più grande democrazia del
mondo. Legittimando la presuntuosa convinzione che sia un paese più
corrotto del nostro, con un sistema giudiziario ancora più caotico.
Consultiamo gli indici internazionali di trasparenza e corruzione, e
ricordiamoci anche comunque l'India è una democrazia funzionante,
magari lentamente, ma perché ha più di un miliardo di abitanti.
L'assenza di una morale kantina
Terzi
e Monti dunque come espressione di un paese del Terzo Mondo, poco
affidabile ancora una volta. Ma noi ci siamo dimenticati quando,
giustamente, c'indignammo che i colpevoli statunitensi non siano mai
stati puniti per la tragedia del Cermis o per la vicenda
Sgrena-Calipari? Perché anche al popolo indiano non può essere
riconosciuto tale atteggiamento? Lungi da ma da dire che il governo
di New Delhi non abbia colpe nello svilupparsi della crisi: la
retorica esasperatamente iper-nazionalista, l'assenza di volontà di
negoziazione nei primi mesi, il mancato coordinamento con il governo
del Kerala, sono esempi validi a supportare tale affermazione.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare quali sono le poste in gioco: da
una parte il destino di due concittadini italiani, colpevoli od
innocenti, dall'altra la dimostrazione che nel mondo i rapporti di
forza sono cambiati.
I rapporti italo-indiani degli ultimi anni
Invero,
tutta la crisi non può essere considerata a parte, e va
contestualizzata in una situazione già assai particolare. Per tre
motivi. In primis, i rapporti italo-indiani non hanno mai brillato
per profondità e coinvolgimento: solo negli ultimi anni c'è stata
una sorta di “riscoperta” dell'India, per usare parole degli
analisti dello IAI, ma essa non si è accompagnata da risvolti
concreti di collaborazioni, come invece è successo nel caso cinese.
Tra le poche joint ventures degne di nota infatti c'è stata quella
promossa dall'ex sottosegretario alla difesa Crosetto che nel 2009
avviò un progetto di collaborazione tra Finmeccanica ed il colosso
Tata per elicotteri di guerra. Da lì la famosa commissione da 750
milioni di dollari sui veivoli AugustaWestland (azienda inglese di
Finmeccanica), che il governo indiano ha cancellato dopo un'inchiesta
su presunte tangenti a New Delhi e l'arresto del presidente -quota
Carroccio- Orsi, lo scorso 12 febbraio. Il gabinetto del premier
Singh infatti non voleva commettere lo stesso errore del passato,
quando uno scandalo di tangenti, armi e faccendieri italiani
coinvolse il governo di Rajiv Gandhi, e qui è servito il terzo
motivo.
L'imperatrice dell'India de noattri?
Singh
e Gandhi, oltre ad appartenere allo stesso partito, quello dominante
dell'India, il Congresso Nazionale Indiano, sono legati da un'altra
figura, assai controversa nel paese. Sto parlando di Sonia Gandhi, al
secolo Edvige Antonia Maino, piemontese-cenerentola che da in
ristorante greco di Cambrige incontrò il rampollo della famiglia più
potente del subcontinente, lo sposò e ne raccolse l'eredità
politica dopo il suo brutale assassinio, nel 1991, per diventare
infine la regina del paese, una delle donne politiche più potenti
del mondo, secondo Forbes. Nel 2004 l'INC vinse le elezioni, ma la
candidata Sonia rinunciò alla carica di primo ministro proprio per
le polemiche sulle sue origini italiane, cedendo l'incarico al grigio
economista Singh. Tuttavia la Gandhi rimane il politico più
conosciuto e potente dell'India, il capo della dinastia Gandhi-Nehru,
oltre che ovviamente dell'INC. Spesso criticata per la sua scarsa
pronuncia dell'inglese (come se gli indiani fossero madrelingua),
vive, veste e parla come un'indiana. Eppure non è mai stata del
tutto accettata, ed i suoi oppositori politici hanno avuto sempre
terreno fertile per criticare la straniera, e di riflesso, il suo
paese d'origine. Non voglio entrare nel merito politico della Gandhi,
però porto l'esempio di come la sua questione delle origini ebbe un
riscontro pesante nel caso dello scandalo di cui accennavo prima.
Lo scandalo Bofors
Negli
anni '80 infatti l'India fu scossa dallo scandalo Bofors (nome dato
da un'azienda svedese di armamenti) che coinvolgeva il governo Gandhi
accusato di aver ricevuto tangenti per l'acquisto di cannoni Haubits
FH77. La vicenda portò alla sconfitta dell'INC alle elezioni del
1989. Uomo centrare dello scandalo era l'italiano Ottavio
Quattrocchi, intimo del premier tramite la di costui moglie Sonia.
Quattrocchi lavorava per Snamprogetti, una sussidiaria dell'ENI che
negli anni '80 fece affari d'oro in India, dove oggi lui è
imprigionato dopo una fuga in Argentina.
Oggi
come allora quindi la vicenda dei marò è stata strumentalizzata
politicamente dall'opposizione, soprattutto le parti più oltranziste
del Bharatiya Janata Party (il principale partito d'opposizione), per
attaccare il governo e la leadership della Gandhi, il cui figlio
Rahul sta inoltre imponendosi come astro nascente della politica
indiana.
La Gandhi ha ovviamente dichiarato due giorni fa che l'Italia deve rispettare i patti, mentre l'UE, tramite l'altro ministro-macchietta Ashton ha dato sostegno al nostro paese nella difesa dell'ambasciatore Mancini trattenuto (in ostaggio praticamente) in India.
E'
ovvio quindi che la crisi scaturita dall'incidente del febbraio del
2012 sarebbe stata più circoscritta se, oltre all'atteggiamento
miope del governo italiano, anche quello indiano non avesse cavalcato
l'onda (populista) anti-italiana latente in una parte della società indiana.