(Associated Press) |
Ilaria Lezzi e Filippo Barbagli
Quanto pesano le esportazioni ideologiche e quanto pesano le associazioni tra contesti differenti
Partiamo dall'incipit: da
come gli occidentali vedono piazza Tahrir. Da un punto di vista alla
occidentale, forse prossimi all' anniversario della Presa della
Bastiglia. Non ci posson far nulla: quando vedono gente in piazza
l'associano a "Democrazia & Libertà": concetti
nobilissimi, che la storia occidentale si è guadagnata, che mondi a
noi vicini latitanti nel tugurio più nero apprezzano e aspirano,
ma con accezioni diverse.
Che si sia scelta una via
"islamica" di autogovernarsi e che questa sia fallita per
incompetenza e nepotismo, fatto sta che ieri il potere è stato
recuperato dal passato. Il male minore forse? Andrei molto cauta nel
parlare di "governo democratico" e "rivoluzione di
piazza" quindi, sia perché ad analisi oculata non è quello che
si è manifestato in Egitto e soprattutto perché si incorre in un
abuso di concetti in contesti che hanno un loro trascorso storico e
non per forza assimilabile al nostro modo di interpretare la politica
ed il buon governo. Ho lanciato un toto- post su chi per primo avesse
tirato fuori un parallelismo con la democrazia italiana. Niente di
più ironico e degno solo di battute da dopo-cena. Non mi pare il
caso di far una lectio magistralis sulle pecche della nostra società
politica quanto porre l'accento sull'oculatezza di guardare ai fatti
sociali che, non mi stanco di ripeterlo, hanno differenti sentieri.
Sforziamoci di conoscere la storia, le caratteristiche più intime di
un contesto, il perché del suo grido e non ricadiamo sempre,
retoricamente, con lamentosi paragoni di una società comoda che vive
dietro uno schermo e che addita i suoi affini di non fare niente per
cambiare. Non sforziamoci ad esportare i -nobilissimi- concetti che
abbiamo avuto il sacrificio di portare a compimento e vivere. Parlo
della democrazia, della libertà nelle sue forme e dei diritti nel
senso più lato che ci appartengono e che sta a noi gestirli e non
accontentarci mai di farli crescere. Gli stessi concetti che possono
avere nomi e forme diverse ma che sono comunque riconosciuti "nobili
ed adatti" dalle società se sono esse ad invocarli e a lottare
per essi. Non giudichiamole, non facciamo i maestrini in casa loro e
in casa nostra, a danno di tutti.
Ad maiora!
Prendo spunto dalla
riflessione lanciata dalla mia collega per aggiungere un'ulteriore
provocazione. Due anni fa, in occasione della Primavera Araba, parlai
di “rivoluzioni perdute”. La mia non si trattava solo di una
denominazione nostalgica, era volutamente un disilluso riferimento.
E' vero, noi “occidentali” (passatemi la grossolanità), sin dal
momento fondativo della nostra storia contemporanea, la Rivoluzione
Francese, tendiamo a considerare le rivoluzioni sotto un'ottica
romantica ed idealizzata. A vederle come momenti di svolta, di
promesse di un futuro migliore ora realizzate, di addio ad un passato
triste e desolato. Quasi a compensare l'uccisione freudiana della
religione come via di salvezza, sostituita dall'azione terrena: le
rivoluzioni sono la promessa di una volontà di riscatto, della
consapevolezza del proprio peso nella Storia.
Oggi più che mai, nel
mondo “post-moderno”, della fine di quello basato proprio sulle
ideologie e nato con la presa della Bastiglia, ci sentiamo quasi
affezionati a questi popoli che ancora sembrano avere la forza di
riscattarsi. Noi, figli di un occidente opulento che non ha neanche
più gli strumenti di concepire un mondo, ed un modo, diverso. Noi,
la generazione del dopo '68, per cui il futuro non sono quelle
magnifiche sorti e progressive, ma un grigio dubbioso. I primi nella
Storia a credere che forse non vivranno meglio della generazione
precedente.
Ma ci sbagliamo di
grosso. Sono state poche le “rivoluzioni” che davvero hanno
cambiato in “meglio” il destino di un popolo, di una o più
nazioni. Per il semplice fatto che già in questa frase ho
occasionalmente scelto una precisa interpretazione storiografica ed un
giudizio di valore.
A mio parare è alquanto
fuorviante paragonare i movimenti di protesta delle Primavere Arabe,
e quelli da loro discendenti, con quelli degli Indignados e del
movimento (o global label?) Occupy. Certamente si tratta di movimenti
sociali che presentano caratteristiche comuni (assenza di un leader,
mobilitazione online, uso dei social networks etc), ma hanno alle
spalle storie diverse. Occupy e gli Indignados erano sorti sulla scia
di un rifiuto di un modello socio economico atrofizzato, erano cool e
tendenzialmente di sinistra, alimentati dai giovani senza futuro dei
paesi europei e Stati Uniti. Le rivolte arabe sono altro, sono la
fine di un lungo processo di modernizzazione intesa come presa di
coscienza dei propri diritti civili, in regimi veramente
dittatoriali, la cui funzione storica si è esaurita dopo la fine
della Guerra Fredda.
Rimane un fatto: in
piazza Tahrir due anni fa c'è stata la rivoluzione. Ieri, un colpo
di stato nella salsa più genuinamente “africana”. Perdonatemi
l'aggettivo razzista ai limiti della stupidità, ma spero di aver
centrato il punto. Morsi era stato eletto un anno fa democraticamente
nelle prime elezioni libere della storia egiziana. Certo, era il
leader della Fratellanza Musulmana, ma non era un jihadista: voglio
dire, in un paese a maggioranza islamica, c'era da stupirsi de il
candidato di un partito d'ispirazione religiosa avesse vinto le
elezioni? Pensiamo alla nostra DC, o alla CDU in Germania...
Poi Morsi ha dimostrato
di non essere quel cambiamento che le classi urbane egiziane -cioè
la piazza, cioè la Rivoluzione- tanto attendevano, si è subito
impostato con una dialettica limitatamente democratica. Le proteste
di due mesi fa, con i morti che ricordavano i “martiri” uccisi
sotto Mubarak, l'aspro dibattito sulla costituzione “fondamentalista”
(art.2) -seppur approvata da un referendum- ha peggiorato la
situazione, già gravata dall'incompetenza dimostrata dai nuovi
eletti ed il poco carisma del Presidente, in un paese governato da
millenni da faraoni, re e presidenti con pieni poteri.
Lode al popolo egiziano,
almeno quella parte che entrerà nella Storia come la pizza Tahrir,
perché credono ancora nella forza del cambiamento. Ma stiamo attenti
a parlare di svolta, di rivoluzione democratica in Egitto. Perché
quelli che ieri festeggiavano con urla,caroselli e fuochi
d'artificio, invocavano l'intervento dell'esercito per destituire il
presidente democraticamente eletto. Fatto puntualmente accaduto. Ma
invocavano lo stesso esercito che due anni fa massacrava i giovani
manifestanti, gli stessi quadri da cui sono emersi Nasser, Sadat e
Mubarak, gli stessi militari che in fondo sono i detentori ultimi del
potere in qualsiasi paese dove non si è sviluppata una democrazia
solida, a maggior ragione l'Egitto.
Non dimentichiamoci poi
che erano stati gli stessi militari a guidare il processo di
“transizione” dal trentennio dell'ultimo faraone al “nuovo”
Egitto, sospendendo anche la Costituzione. Storia che si è ripetuta
ieri: ancora prima che Morsi venisse ufficialmente destituito,
l'odiosa costituzione approvata l'anno scorso, è stata dichiarata
sospesa.
Gli avvenimenti di ieri
rappresentano, a mio parere, un pericoloso precedente per lo sviluppo
della democrazia in Egitto. Perché ha unito i rivoluzionari di
Tahrir con i colpevoli di “ieri”, ha trasformato l'esercito nel
salvatore della Patria -ancora una volta- e decisore ultimo delle
sorti della nazione. Gli è stato arrogato il diritto di “riportare
sulla giusta strada” il paese in caso di pericoli e deviazioni.
L'esercito che controlla la società civile, e non il contrario: così
non sarà mai democrazia.
Probabilmente l'Egitto
vivrà un periodo simile alla Turchia post-kemalista del dopoguerra,
con tutte le eredità pesanti e drammatiche che un peso così
importare conferito ai militari può arrecare.
I fatti egiziani degli
ultimi giorni hanno però dimostrato qualcosa: che tutta la retorica
sui pericoli dell'islam al potere, delle maggioranze silenziose e le
minoranze facinorose sono delle grandi sciocchezze. Il fattore
religioso non è stata una discriminante nella mobilitazione, ma la
sua percezione di utilizzo ne è stata una giustificazione. La
maggioranza che ha votato Morsi non è scesa in piazza e quindi ha
perso la legittimità dell'esercizio del potere politico, in un paese
che si è sentito rinato proprio lanciando pezzi di asfalto contro i
carrarmati del regime.
Le rivoluzioni non si
fanno con le canzoni ed i libri, ma con battaglie: e come tali sono i
vincitori a scriverne e definirne l'eredità.
Ma in fin dei conti, se
domani un giovane egiziano potrà dirsi più felice di ieri o di due
anni fa, allora una rivoluzione non sarà andata proprio perduta.