19 settembre 2013

Obama-Putin: attenti a chiamarla guerra fredda

Ilaria Lezzi

Il siparietto degli ultimi tempi, dal caso Snowden, alle sabbie mobili del perenne interventismo americano, alla proposta amichevole di Putin e, soprattutto, al suo voler esprimere la "posizione russa" sul New York Times, hanno reso facile a molti parlare di una "nuova guerra fredda". L'associazione tra due episodi o periodi storici, oltre che essere inappropriata storicamente, offusca la lettura dei fatti. Quella di oggi è una storia di un gigante sofferente e dell'intenzione di chi gli sta di fronte, di aiutarlo a prendere consapevolezza del suo stato.


Anche Kruscev aveva pubblicato un articolo su Foreign Affairs con tanto di"Peaceful coexistence" come titolo. Il leader sovietico scriveva di un' Unione Sovietica  amante della pace sociale e che assolutamente non cercava la guerra con gli Stati Uniti. Piuttosto, Washington e Mosca si sarebbero dovute astenere dal conflitto e permettere ai popoli delle diverse società, guardando soprattutto ad Africa e Sud-Est asiatico, di scegliere le proprie forme di governo. Kruscev criticava i leader americani per gli sforzi aggressivi mirati ad invertire il progresso comunista in Europa Centrale, Cuba e Vietnam: "Né gli ispiratori della guerra fredda, né coloro che la conducono possono invertire il corso della storia e restaurare  il capitalismo nei paesi socialisti."

Era un linguaggio un po' di circostanza ma, prendendolo con le pinze, il messaggio di Kruscev era un invito alla "non-ingerenza negli affari interni di altri Paesi". Accusava l'intervento degli Stati Uniti nelle neo-società straniere che fiorivano dalla decolonizzazione ed il cui profilo era ancora in dubbio; così facendo si sarebbero solo esacerbati instabilità e conflitti. Specularmente l'Unione Sovietica, alter ego di ogni sfaccettatura e posizione dell'aquila americana nel cinquantennio guerrafreddista, appariva fresco e modesto pioniere del non-interventismo. La storia mostrerà che il corso sovietico non fu poi così casto ed angelico. In ogni caso,  la pubblicazione di articolo di Kruscev sul faro dell'informazione di politica estera americana, in quegli anni poi, rende l'episodio Putin – New York Times degli scorsi giorni particolarmente ironico e intriso di certezze vichiane.

Putin ha voluto dare all'opinione pubblica mondiale, partendo da quella statunitense, l'immagine di una Russia paladina del pacchetto “ Nazioni Unite e diritto internazionale”, le stesse palafitte di cui i difensori ostentati della democrazia, si ritengono creatori. Scendendo dal piedistallo idilliaco e morale, Putin ricorda come gli americani  ci abbiano perso non poche penne negli interventi in Iraq, Afghanistan ed altrove: “E' estremamente pericoloso spingere l'opinione pubblica a ritenersi eccezionali, aldilà di quale possa essere la motivazione”.

Raccontato questo siparietto di parallelismo storico, è spropositato parlare di guerra fredda riferendoci alla situazione attuale.  E non per prendere le carte difensive di Obama che subito si è affrettato a ribattere: “Accolgo il coinvolgimento di Putin per risolvere la questione. Ma non e' la guerra fredda. Non e' una gara fra Stati Uniti e Russia. Se Mosca vuole influenza in Siria, non colpisce i nostri interessi". Ma perché la guerra fredda è un capitolo intriso di particolarità alla Dr. Jekyll and Mr. Hyde in cui il Leviatano delle relazioni internazionali mantenne fisso per 44 anni, seppur a fasi alterne, una conformazione bicefala tra Usa e Urss, tale da assumere sembianze alla Tom & Jerry nel rincorrersi nella superiorità d'ogni ambito. Il tutto, è vero, passava sempre dal realistico "interesse nazionale": esercitare l'influenza su ogni granello di terra del globo significava, prima di tutto, plasmarne la forma politico-ideologica. Comunismo e democrazia, democrazia e capitalismo si affermavano e si annullavano in una lotta incessante. 

Dal 1989 il mondo è cambiato, sia che si guardi al fatto che uno dei due giganti sia crollato o che l'altro abbia vinto. Fieri dell'ultima supposizione, gli Stati Uniti hanno intrapreso il sentiero della quintessenza dell'interventismo in nome della democrazia, non avendo più a che fare col Mr. Hyde della situazione e raddoppiando la loro autoconsiderazione dopo gli eventi del 1989. Il mondo è cambiato anche perché le minacce non sono più territoriali con chiave ideologica, ma si sono raffinate verso categorie di “dicotomiche lotte culturali”, “attacchi cibernetici” o “ricatti petroliferi”. Nuove sfide richiedono nuove preparazioni; non si può combattere un nuovo nemico sempre con la stessa arma. E mi riferisco all'interventismo militare in nome della pace e della democrazia. Il militarismo non può competere nel campo di battaglia moderno. Lo dico a maggior ragione in riferimento alla Russia che ha un'economia gigante, prevalentemente trainata da olio e gas ma, in termini assoluti, non può considerarsi oggi l'alter ego  nella competizione con gli Stati Uniti su scala mondiale e quindi in quella che è stata pensata come la riedizione della guerra fredda nel nuovo millennio.

La questione siriana, alla "Putin & Obama" sembra essere una questione politica prima di tutto, fatta di pesi e contrappesi di responsabilità su chi deve "intervenire per risolvere", partendo dal presidente che è stato eletto "per la pace" e si è beccato anche un Nobel. E' questione politica che nasce proprio dall'impostazione statunitense di gestire le crisi del mondo e le relazioni internazionali. Significativo è, infatti, che per storia e contingenza, Israele non abbia espresso posizione d'urgenza.
I russi, in Siria, non hanno certo un buon precedente nella gestione delle armi chimiche. Nel 1992, l’allora presidente Boris Eltsin affidò al generale Anatoly Kuntsevic il compito di smantellare agenti batteriologici. Il generale restò al suo posto due anni, poi venne sollevato dall’ incarico “per aver compiuto gravi violazioni". Solo più tardi si scoprirà che Kuntsevic, nel 1993, creò una società di copertura attraverso la quale vendette 800 chilogrammi di precursori chimici a Damasco. Materiale utile alla produzione di gas sarin.
E poi, anche se si riuscisse a distruggere le armi chimiche, lasciando che regime e insorti continuino a massacrarsi con le armi convenzionali, sarebbe comunque da considerarsi una soluzione della crisi? Ah, il lato umanitario giusto.  Stavolta la salsa era doppiamente  di gusto morale: si può far finta di non vedere i bambini uccisi dal gas? Si possono usare armi e distruzione su altra distruzione? E' come se Putin, per ragioni di vicinanza territoriale e preoccupazione economica, sia stato l'unico grande locale a dover dire agli americani: "siamo nel multilateralismo, giusto? Allora anche noi possiamo prendere l'iniziativa". Non è quindi un nostalgico tiro alla fune Usa - Russia. Uno strano gioco del destino, forse, per ricordare agli Stati Uniti che la postura che hanno acquisito nel tempo nasce da una competizione imparagonabile, nata da un'impuntata dicotomia ideologica e sfumata poi in ben altro. 

Se proprio deve avere il sapore della guerra fredda allora, ad esser pignoli, dovrebbe aver quello del disgelo degli anni '80, gli anni della fine di Reagan e la transizione sovietica verso Gorbacev. Erano gli anni in cui l'esuberanza statunitense era più forte che mai, pavoni non solo delle relazioni internazionali ma del mondo. Gli stessi anni in cui, migrando verso una timida consapevolezza dei potenziali limiti della loro potenza, scesero a trattare con i sovietici, con un occhio di scetticismo sempre conservato.
Oppure ancora, si potrebbe pensare ai meticolosi piani sovietici di controllo dei sistemi missilistici statunitensi in terra d'Europa degli anni '70 poi tutti gli anni '80, se guardiamo ora alla recente consegna di Putin alle Nazioni Unite delle immagini dei satelliti russi che smascherano il fatto che i razzi che hanno causato l’ultima strage in Siria (1300 morti) non sono partiti da Damasco o dalla Siria, ma da territori di pertinenza di gruppi Salafiti: ovvero dei cosiddetti “ribelli-mercenari” al soldo di Arabia Saudita e USA.

 Piuttosto, la critica di Putin all’ eccezionalismo americano rivela la voglia di rivalsa russa, dalla fine della Guerra fredda. I russi, schiacciati dall'esuberanza di quello che appariva il suo vincitore,  hanno vissuto la sensazione di perenne fragilità. È avvenuto nel corso delle guerre balcaniche quando Mosca, amica e protettrice della Serbia di  Milosevic, rimase inerme di fronte all’ intervento della NATO contro il dittatore di Belgrado. Ed è accaduto con la guerra in Libia, con l'imposizione della no fly zone contro Gheddafi, targata da una risoluzione Nazioni Unite-Lega araba. La Russia scese ad approvare il documento anche se, da lì a poco, l'esuberanza dei bombardamenti europei, in primis di Francia e Gran Bretagna, rendevano quel documento una palese foglia di fico alla occidentale.
Addirittura, l’iniziativa del leader russo e del ministro degli esteri Sergej Lavrov per convincere il governo di Damasco a consegnare il suo arsenale chimico agli ispettori internazionali ha un valore e un’utilità contingenti, finalizzati a impedire che gli Stati Uniti venissero trascinati nel meccanismo inarrestabile della punizione militare di Assad. E i primi a essergli grati sono proprio gli americani visto che questo gli aiuterebbe ad uscire da un’impasse di cui appaiono autoimbrigliati in eterno. Non guerra fredda ma addirittura sottile cooperazione, quindi? Allora, è la strategia della sopravvivenza di chi?  Non della nuova Unione Sovietica, reclusa in una soggezione pluridecennale che l'affannava a rincorrere il gigante a stelle e strisce. Ora chi deve sopravvivere e mantenersi a galla sono gli Stati Uniti. Una favoletta della letteratura delle relazioni internazionali racconta e ripete che il ciclo della vita di un gigante nello scacchiere internazionale ha le ore contate. Nasce, si mantiene e si esaurisce. E subito pronto c'è chi gli soffia il posto.  Al fondo, non c'è altro che la  consapevolezza che l'unilateralismo di firma reaganiana è finito senza possibilità di resurrezione, che gli Stati Uniti non hanno più i mezzi e tantomeno la possibilità di decidere da soli le sorti del mondo e di imporre le loro soluzioni alle crisi che si manifestano. Consapevolezza che Obama ha manifestato subito fin dalla suo primo mandato, ma che in questi mesi arriva ad una maturazione più complessiva e definitiva. Così le incertezze, la continua ricerca di vie alternative e i tentativi di guadagnare tempo, che certo non hanno accresciuto la sua credibilità internazionale e soprattutto domestica e che ora dopo ora pone il veto più macroscopico agli artigli americani, esacerbando i limiti del perenne approccio a stelle e strisce. 

Il campo di battaglia mediorientale segna i limiti e la sofferenza della politica estera americana, sotto gli occhi di tutti da tempo ma che nessuno, se non per contingenza economica e territoriale, ha avuto il coraggio di puntarci un faro addosso. Il gigante sta crollando, ma non è la Russia a dover prendere il suo posto, come in un gioco di vendetta romanzesco. Piuttosto mi concentrerei su chi è più che il gaudens tra i due litiganti. La Cina di Jinping, oltre ad essersi cementificata nello scorso G-20, oltre ad aver annunciato il bisogno di una new diplomacy, ha espresso posizione come un'eco sul caso siriano: un caso che non la riguarda dal punto di vista della prossimità territoriale e che, al tempo stesso, esprime la valenza globale della sua potenza. Ma questa è un'altra storia. E adesso non parliamo di "diplomazia tripolare".