Francesco Pignotti
Affrontare la delicata questione del rapporto tra politica e giustizia in Italia significa scoperchiare un vaso di Pandora che ci costringerebbe a discutere sul tema per ore, forse giorni.
Da una parte ricordiamo, solo a titolo di esempio, certi eccessi da parte della magistratura durante l’inchiesta “Mani Pulite”, l’utilizzo disinvolto di strumenti quali quello della carcerazione
preventiva o il raccordo che si instaurò all’epoca tra magistratura inquirente, circuito informativo e mediatico ed opinione pubblica e che alimentò troppo spesso processi sommari e di piazza a numerosissimi esponenti politici; ricordiamo anche la trionfale discesa nel campo dell’agone politico (con alterne fortune) di magistrati appena reduci da inchieste che riguardavano da vicino il mondo della politica e i suoi protagonisti, come nel caso di De Magistris o di Ingroia. Vi è insomma da segnalare un rischio di attentato da parte della magistratura all’indipendenza degli altri due poteri montesquiviani, o, in una sola parola, della politica.
D’altra parte non si può non segnalare la persistenza in Italia di un potere politico troppo spesso corrotto, insofferente verso le norme e le regole che dovrebbero presiedere al suo funzionamento e verso coloro che dovrebbero assicurarne il rispetto. E così l’Italia è anche il paese degli infiniti dinieghi alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di membri del Parlamento, di un utilizzo distorto dell’articolo 68 della Costituzione in vigore fino al 1993, di continui tentativi di ingerenze nell’attività della giustizia, spesso attraverso l’approvazione di leggi ad personam (tutt’altra storia sarebbe un intervento legislativo di riforma complessiva della giustizia). Insomma, anche qui il rischio di un attentato all’indipendenza del potere giudiziario e della magistratura.
Consideratemi pure un ignavo, vogliate collocarmi nell’Antinferno dantesco, ma io non riesco ad avere una posizione netta sul tema. Credo piuttosto che, come spesso succede, questa spinosa situazione sia frutto della corresponsabilità di politica a giustizia.
E’ giusto che la politica aspiri a riformare la giustizia, nel rispetto della Costituzione, secondo sue proprie visioni. Certamente è giusto pure non essere d’accordo con certe decisioni assunte dagli organi giudiziari. Una cosa però io non sopporto. Un fatto che, in Italia, io trovo grave e pericoloso: il rifiuto di una sentenza, di una decisione presa da un potere costituzionale, per cui si può liberamente portare il proprio popolo in piazza a protestare contro il giudice reo di aver stabilito una verità giudiziaria che non ci aggrada e non corrisponde alla nostra presunta “verità ontologica”.
Non trovo grave tanto il fatto in sé, quanto il ragionamento che gli sottende. Non ci piace ciò che l’arbitro ha deciso? Benissimo, evidentemente l’arbitro ha sbagliato, e via tutti a protestare. E’ un atteggiamento italiano che ci contraddistingue in molti ambiti della nostra vita. Si potrà casomai proporre una riforma del mondo arbitrale, ma finché le cose stanno come stanno, come diceva quello, “rigore è quando arbitro fischia”. Punto.
Ed ecco perché io trovo vergognoso che Angelino Alfano, vicepresidente del consiglio e ministro dell’interno, scenda in piazza per protestare contro un magistrato ritenuto colpevole di voler capovolgere con una sentenza una presunta “volontà popolare” (come se questa non andasse poi esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”).
Ed allo stesso modo, trovo insopportabile, mutatis mutandis – e qui so che mi giocherò la metà dei miei nuovi lettori – che l’allenatore della Juventus Antonio Conte, e la società Juventus tutta, continuino a comportarsi come se i loro scudetti fossero 31, e non 29, come da sentenza. Capisco che possano esserci molti aspetti discutibili relativi al mondo della giustizia sportiva. Ma se davvero si vuole, la si riforma. Perché adesso funziona così e le sentenze che emette sono verità giudiziaria. E come tale vanno rispettate. Punto.