Francesco Pignotti
Il dibattito sulle riforme
istituzionali ruota in questi giorni attorno alla questione
semipresidenzialismo sì/semipresidenzialismo no. Non è certo una novità nel
nostro paese, dal momento che la possibile imitazione della forma di governo
che caratterizza la quinta repubblica francese è un punto all’ordine del giorno
da diversi anni.
Non intendo dilungarmi nell’analisi
di quali sarebbero pregi e difetti, benefici e rischi di un’eventuale
importazione del modello semipresidenziale francese in Italia.
Del resto non avrei le competenze per farlo. Mi piacerebbe solo ricordare i principali tentativi (tutti falliti) di riforma complessiva della seconda parte della nostra Costituzione (fatta esclusione per il Titolo V), tanto per tranquillizzare gli avversari del semipresidenzialismo, ché tanto non si farà mai, come tutto il resto in questo benedetto paese.
Del resto non avrei le competenze per farlo. Mi piacerebbe solo ricordare i principali tentativi (tutti falliti) di riforma complessiva della seconda parte della nostra Costituzione (fatta esclusione per il Titolo V), tanto per tranquillizzare gli avversari del semipresidenzialismo, ché tanto non si farà mai, come tutto il resto in questo benedetto paese.
Non so nemmeno da dove (e da quando)
cominciare. Probabilmente l’unico vero progetto di riforma istituzionale in
senso maggioritario coerentemente e strenuamente portato avanti nel corso degli
anni è stato quello dei radicali, che attraverso lo strumento referendario
hanno tentato di scardinare il sistema ultra-parlamentare e consociativo che
caratterizza la nostra repubblica per garantire il corretto funzionamento delle
istituzioni, quella strada poi seguita e portata ad estreme conseguenze dal
movimento referendario guidato da Segni negli anni ’90 in materia elettorale.
Ma, Partito Radicale a parte, mi
viene da ricordare innanzitutto il progetto di “grande riforma” in senso
semipresidenziale promosso dal PSI di Craxi a partire, più o meno, dal 1979;
progetto per la verità abbandonato una volta che il leader socialista si è
seduto comodamente sulla poltrona pentapartitica del governo, dimenticandosi e
rinnegando tutte le aspirazioni maggioritarie per il suo belpaese (d’altronde
si chiamava Craxi, non Mitterand…).
Vi fu nel 1982 il “decalogo Spadolini”,
fragile e scarno, ma comunque innovativo; sulla scorta di quel documento nacque
nel 1983 la prima Commissione bicamerale per le riforme, la cosiddetta “Commissione
Bozzi”, che dette vita ad un progetto di riforma istituzionale che rafforzava
il ruolo del presidente del consiglio e rivedeva le competenze legislative
delle due Camere. Non se ne fece niente.
Poi, mentre il sistema veniva
travolto dai referendum elettorali che spazzarono via il proporzionale, fu la
volta della seconda Commissione bicamerale, la Iotti-De Mita, nel 1993. Tanto
fumo per niente: l’unico vero risultato fu il progetto per la nuova legge
elettorale (Matterellum) che fu poi approvata gioco forza dopo la vittoria dei
SI ai referendum elettorali. Ma di riforme istituzionali incisive nemmeno l’ombra.
Dopo governi istituzionali,
tecnici e rivoluzioni liberali, bisogna attendere la fine del “governo a
termine” di Lamberto Dini per una nuova chance per le riforme istituzionali: il
mai nato “governo Maccanico”, a cui infatti sia Prodi sia Fini e Casini
preferirono le urne nel 1996. Ancora una volta, niente riforme.
L’anno seguente è quello della
terza Commissione bicamerale (D’Alema-Berlusconi) e del celebre “patto della
crostata”. Qui venne prefigurato un sistema semipresidenziale simil-francese e
vennero riviste, differenziandole, le competenze legislative delle due Camere.
Ma la Bicamerale D’alema, dopo aver trovato pure l’accordo sulla riforma
elettorale a casa Letta, alla fine fallì, sappiamo tutti per colpa di chi e sappiamo
tutti perché.
Sono seguiti i tentativi di
riforma costituzionale a colpi di maggioranza assoluta da parte dei singoli schieramenti
politici. La via l’ha tracciata il centrosinistra con la riforma del Titolo V,
approvata poi dagli elettori con referendum costituzionale nel 2001. Poi ci ha
provato il centrodestra con un progetto che, tra l’altro, rafforzava il premier
e istituiva il Senato delle Regioni. Ma gli elettori lo hanno bocciato nel
referendum del 2006.
Sulla “strana maggioranza” a
sostegno del governo Monti, quella che doveva lasciare al Professore e ai
tecnici le questioni economiche per occuparsi dell’autoriforma della politica,
delle istituzioni e della legge elettorale, preferirei stendere un velo
pietoso.
Il succo, al di là delle vicende
contingenti, è che la politica nel nostro paese non è in grado di riformare le
istituzioni. Non lo ha mai fatto in 65 anni. L’unica vera rivoluzione è stata
quella relativa al passaggio dalla prima alla seconda repubblica agli inizi
degli anni ’90, ed è stata dovuta ad un insieme di fattori congiunti quali la
fine dell’URSS, l’unificazione della Germania, la crisi economica, l’attività
delle procure (Mani Pulite), la spinta referendaria guidata da Segni. La
politica in effetti una cosa l’ha fatta in quel frangente: ha resistito fino
all’ultimo pur di non cambiare, riformarsi e riformare le istituzioni. Come
sempre, del resto.
Si diano pace dunque i detrattori
del semipresidenzialismo. Non lo si farà. E sono il primo io stesso a sperare
di essere clamorosamente smentito dai fatti.