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Roberto Mantero
Il 9 maggio, mentre in
Europa si celebrava l’Europe Day e in Italia ricorrevano gli
anniversari della morte di Peppino Impastato e di Aldo Moro, in tutta
la Russia si ricordava l’annuncio della vittoria sul nazismo,
seguente la firma della resa incondizionata della Germania alla fine
della II Guerra Mondiale.
Faccio una premessa: da
quattro mesi sono in scambio a Mosca, e sono quattro mesi che mi
affanno a cercare di farmi un’opinione ragionevole di questo paese,
sfuggendo ai facili ottimismi nati dall’osservare una dinamicità
(anche se non so quanto duratura nel tempo) sconosciuta in Italia e
agli altrettanto scontati giudizi negativi derivanti dall’attuale
congiuntura politica internazionale (tradotto: Ucraina; che poi anche
qua ci sarebbe da discutere).
Tuttavia mentre
passeggiavo in buona compagnia per Park Pobedy (il Parco della
Vittoria, completato negli anni Novanta per celebrare le vittorie
contro Napoleone e i nazisti), ecco qualcosa che mi colpisce con
chiarezza: la grande partecipazione popolare nel ricordare quanto è
stato, con un livello di coscienza che ai miei occhi è sembrato
decisamente più adeguato alla portata dell’evento. Il pomeriggio è
stato dei migliori: venticinque gradi, spuntino post parata militare
(o almeno quel poco che sono riuscito a vedere), riposino sul prato
circondato da una grande festa.
Tornando a casa però un
tarlo continuava a girarmi in testa, come se qualcosa non quadrasse
all’interno dei miei schemi cognitivi. Abituato a relazionarmi (e
lo devo confessare, con un po’ di pigrizia) con il ricordo storico
della II Guerra Mondiale in un certo modo, quanto ho visto mi ha
portato a riflettere sulle differenze con l’Italia e sul modo
peculiare che i Russi hanno trovato nell’incastonare una grande
vittoria nel flusso, grandioso e temibile, di tutto quello che è
successo nei settant’anni successivi, specie negli ultimi
venticinque.
Il primo pensiero,
condiviso peraltro da un amico austriaco, è stato: “Ecco la
differenza tra un paese che ha vinto la Guerra e uno che l’ha
persa!”. Il tutto accompagnato da una risata, anche perché le
scene viste erano quanto di più sano si potesse immaginare: giovani
e persone di mezz’età orgogliosamente in giro con fotografie dei
propri famigliari morti in guerra, veterani in divisa pieni di
medaglie che, semplicemente seduti su una panchina, ricevevano un
fiore e un grazie per il loro impegno e sacrificio di tanti anni
prima da ventenni e bambini, piccole bande musicali che si aggiravano
per l’immensa folla intonando la Katusha. Il suddetto tarlo però
ha messo una punta di amaro in tutto questo: sarebbe possibile tutto
questo da noi? La risposta ovvia è no: come già detto la guerra
l’abbiamo persa (per fortuna). Quello che abbiamo è l’incredibile
esperienza partigiana antifascista partita dal basso, la cui memoria
si scontra sempre di più con l’incapacità, mi dispiace dirlo,
tutta italiana (basta fare un salto in Germania per rendersene conto)
di fare i conti con il proprio passato, e non solo relativamente alla
Guerra Mondiale. Sinceramente non so cosa sia andato storto, ma sono
stati fatti alcuni errori di gestione politica e di formulazione
intellettuale, sia dai cattolici sia dalla sinistra, per cui ora
questo patrimonio è visto perlomeno con sufficienza, pericolosamente
vicino al baratro del dimenticatoio. Purtroppo, neppure io mi sento
completamente esente da ciò.
La seconda riflessione,
collegata con quanto detto sopra, parte dal mio stupore nel
considerare l’apparente triplo salto mortale intellettuale che
permette ancora oggi un così fervido ricordo della vittoria in
Russia. Non dico che questo sia necessariamente buono e giusto, sta
di fatto che l’intensità mi ha sorpreso. Certo, una vittoria di
quel genere contro forse l’unico male assoluto nella storia
dell’Umanità è qualcosa che marchia indelebilmente a fuoco il DNA
di una nazione, ma inoltre in questo caso s’incastrano degli
elementi aggiuntivi: milioni di morti causati da una strategia
militare incurante del massacro, quarantasei anni successivi di
regime, la disgregazione di un’entità unica in quindici componenti
con rapporti non sempre idilliaci tra loro, un decennio di completo
caos, politico, economico e ideologico, seguito da tre lustri
quantomeno opachi se non autoritari sul piano interno ma di buona
crescita economica, in cui il nazionalismo, in senso più o meno
neutro, ha fatto la sua ricomparsa. Ce ne sarebbe da far girare la
testa a qualsiasi popolo, eppure il ricordo di quella tragica,
sacrificale vittoria si è qui mantenuto, anche in questo
contradditorio turbinio. Le ragioni possono essere le più varie,
provenienti dal basso e dall’alto, tutte corrette e allo stesso
tempo sbagliate: il retaggio della retorica comunista del passato; un
tradizionale legame alla madrepatria; l’opportunistica, in chiave
politica odierna, strizzatina d’occhio ai paesi vicini in nome di
un glorioso gesto comune; una maggior abitudine al militarismo; una
risposta a un mondo esterno percepito come ostile senza averne una
ragione (e questa sensazione l’ho trovata molto forte, più forte
di quanto me l’aspettassi); il fatto che comunque si è dalla parte
giusta della Storia; il ricordo di un qualche famigliare morto.
La combinazione è
stupefacente, il risultato ancora di più: un popolo che magari non
ha ancora fatto i conti né con il proprio presente economico e
politico né con il proprio recente passato, ma che sembra avere,
nonostante tutto, un punto fermo in quanto accaduto settant’anni
fa.
È evidente che il
paragone con la situazione italiana non regge, troppo diverse sono le
vicende storiche precedenti e successive il dopoguerra, tuttavia il
confronto, anche solo visivo, resta impressionante, anche dentro una
piccola, sconclusionata, riflessione personale.